In fuga dalla Striscia senza papà Sami: “Ma torneremo a casa per costruire la pace”

Il Cairo — «Siamo molto stanche. Ogni giorno che passa va un po’ meglio, ma è ugualmente molto difficile. Non eravamo mai uscite da Gaza e siamo frastornate da ciò che ora ci circonda. Avevamo sempre sognato di viaggiare, vedere il mondo. Ma non così. Quando nostro padre ci ha detto che stava organizzando la nostra uscita dalla Striscia siamo rimaste scioccate. La nostra famiglia e Gaza sono tutto ciò che abbiamo. Andare via è stata dura».

A parlare è (quasi) sempre Ruba, l’inglese impeccabile, la figura sottile, lo sguardo acuto, i colori leggermente più chiari della gemella Bisan che ha i capelli nerissimi e la mano destra offesa dalla scheggia di missile che la colpì nel 2012, quando aveva 8 anni, e che subito sottolinea di essere lei la più grande: «Sono nata mezz’ora prima, mia sorella se l’è presa comoda». Ammette di essere anche la più timida: «Preferisco ascoltare anziché parlare», sussurra, regalandoti un bel sorriso aperto.

Eccole le figlie di Sami al-Ajrami, il reporter che racconta su Repubblica il dramma dei palestinesi in guerra. Arrivate al Cairo la settimana scorsa dopo un lungo viaggio: «Quando papà ci ha lasciate ai cancelli di Rafah, non riuscivamo a dir nulla. L’addio ce lo siamo detti solo con le lacrime. Poi ci siamo dovute far subito forza. La fila era interminabile, gli impiegati minuziosi: ci sono volute 8 ore solo per attraversare il confine. Dopo tanto patimento, sul bus c’erano acqua e snack. Ciò che a Gaza costa una fortuna, appena fuori era a portata di mano: è stato sconvolgente accorgerci come il mondo va avanti senza curarsi delle sofferenze di chi è lì dentro».

Ruba e Bisan resteranno al Cairo fino al 22 marzo, quando finalmente voleranno ad Amsterdam prendendo un aereo per la prima volta («Altra esperienza che un po’ ci eccita e un po’ ci spaventa»). Per ora sono ospiti da Ahmed, cugino del padre «che già lavorava in Egitto, ma era a Gaza quando è iniziata la guerra ed è rimasto con noi i primi 50 giorni»: un palazzo giallo nel quartiere collinare di Moqatam abitato dal ceto medio a metà strada fra la facoltosa New Cairo, paradiso dei centri commerciali, e Garbage City, la cui economia è invece basata sul riciclo dell’immondizia. Sul tetto di un’auto parcheggiata davanti al portone dorme un cane randagio, giallo anche lui di sabbia come tutto ciò che ci circonda. «Possiamo andare a vedere le piramidi?» domandano timide. È dunque sulla terrazza di un hotel che guarda la millenaria Sfinge che si raccontano dopo i selfie di rito.

«Mandiamo le foto alle amiche rimaste a Gaza dicendo “stiamo esplorando per voi, presto ci raggiungerete”. Un modo per tenerle su». È il loro compleanno: «Compiamo vent’anni, un anniversario importante che avremmo voluto trascorrere con i nostri genitori. Abbiamo molta paura di non rivederli: la cosa peggiore che ci è successa in questi mesi di guerra è stata parlare con una persona cara e poche ore dopo sapere che era stata uccisa».

Ruba studiava per diventare maestra, ma il suo sogno è fare la giornalista come suo padre: «Abbiamo il visto per studiare un anno in Olanda e vorrei seguire corsi di comunicazione. Seguo sui social tanti giovani fotoreporter che da Gaza raccontano la guerra. Mi piacerebbe un giorno tornare e aprire una scuola di giornalismo, dove si tengano anche lezioni sulla non violenza. Ho sempre creduto che la gente vada educata alla pace».

Bisan vuole invece diventare programmatrice di computer, «sarebbe un modo per esprimermi senza dover usare troppe parole». Provano a descriversi l’un l’altra: «Mia sorella è una che non molla. Ha sofferto molto e ha sempre trovato la forza di andare avanti», dice Ruba. «Mia sorella è la cosa migliore che mi sia capitata», le fa eco la gemella: «Dopo essere stata ferita da bambina, ho spesso attacchi di panico. Quando sento le bombe mi paralizzo. Ho bisogno che mi si abbracci forte e lei è sempre lì per me».

È successo anche l’altra sera: i parenti le hanno portate nel caos del centro in festa per il Ramadan: «Non è stata una bella esperienza. La folla, il rumore insopportabile. Un bambino ha fatto esplodere dei mortaretti e abbiamo iniziato a gridare e tremare. La guerra è dentro di noi, non ce la siamo lasciata alle spalle». Provano a scherzarci su anche davanti alla torta su cui non c’è stato modo di mettere una candelina: «Ne abbiamo avuti abbastanza di fuochi. Ma un desiderio lo esprimiamo lo stesso». Già, il futuro. Come ve lo immaginate? «Le cose sono troppo incerte, non vogliamo farci illusioni, evitiamo di guardare lontano. Per ora ci basta sapere che andremo in Olanda. Ci hanno detto che è un posto molto silenzioso e tranquillo. Sarà terapeutico».

Ma se parliamo di sogni più piccoli, allora Bisan dice di volere due cose: «Entrare in una bella libreria e iscrivermi in palestra. Per cinque mesi di guerra siamo state immobili, sempre chiuse ad annoiarci in casa, soprattutto a Rafah dove c’era troppo caos in strada e uscire era pericoloso». E Ruba aggiunge: «Vorrei una bicicletta con cui esplorare Amsterdam. Adoro pedalare ma sono anni che non lo faccio più: alle donne di Gaza l’oltranzismo di Hamas non lo permetteva. E poi voglio prendere la patente. So guidare da quando ho 15 anni e avrei dovuto fare l’esame il 15 ottobre scorso, ma la guerra lo ha impedito».

Con loro hanno portato ben poco: «Solo due album di foto. Li sfogliamo continuamente, ci ricordano che abbiamo radici, non ci fanno sentire sole. Ci sono anche gli scatti dei nostri animali amatissimi: il cane Milo ucciso dalle bombe, la gatta Bissi che in arabo significa “micetta” ed è il soprannome pure di Bisan». Vi manca? «Molto. Di questi tempi nessuno si preoccupa più degli animali. Per ora è ancora con nostra madre a Khan Yunis. I nostri genitori sono separati e noi vivevamo con lei. Poi, con la guerra, hanno deciso di comune accordo che saremmo state più al sicuro con papà».

Hanno un solo cellulare in due e se è Bisan a scattare le foto, è sempre Ruba a mandare messaggi e a postare sui social. Costantemente in contatto con papà Sami, «ansiosissimo», mamma Aya «che potrebbe uscire fra poco: nostro zio che vive in Belgio ha procurato i soldi per il suo viaggio» e con Harrita, l’amica del cuore, un anno più grande: «In questi mesi ci siamo state di grande aiuto. Ora che lei è rimasta a Gaza vogliamo che non si senta dimenticata». Il loro pensiero costante è per Sami: «È sempre stato un padre meraviglioso, ma in questi mesi di guerra abbiamo capito che è veramente un uomo straordinario. Non solo per come ha accudito noi: per la dedizione con la quale lavora. Va nei posti a rischio della sua vita e se non può passa le giornate al telefono per farsi raccontare le storie di tanti. Non avevamo idea che in Italia fosse diventato famoso, la voce di Gaza. Siamo fiere di lui».