Energia, Italia ultima nei prezzi: la Cina li abbatte (ma è una bomba ecologica)

Energia, Italia ultima nei prezzi: la Cina li abbatte (ma è una bomba ecologica) Energia, Italia ultima nei prezzi: la Cina li abbatte (ma è una bomba ecologica)

La scorsa settimana il Corriere ha fatto uno scoop ripreso dai media di tutto il mondo, grazie al nostro “chigista” (ossia, addetto a coprire i presidenti del Consiglio) Marco Galluzzo: l’Italia è uscita dalla cosiddetta Via della Seta, la rete di accordi che legano la Cina a decine di Paesi. Non è un momento facile per la seconda economia del mondo. Sempre la scorsa settimana, l’agenzia di rating Moody’s ha annunciato che potrebbe declassare il debito pubblico di Pechino, anche perché il collasso del settore immobiliare nel Paese sta falcidiando le entrate fiscali. Nel frattempo la Cina, anche benché ne parli poco, dovrebbe essere al centro della diplomazia del clima che in queste ore lavora febbrilmente per chiudere domani la Cop28 di Abu Dhabi con degli impegni credibili dei principali protagonisti per fermare il surriscaldamento del pianeta. Purtroppo i tre fattori sono legati: allentamento delle relazioni della Cina con i Paesi avanzati, grande stagnazione sotto il tallone di Xi Jinping e ritardi nel ridurre le emissioni di gas a effetto serra sono elementi uniti da un filo rosso. La seconda guerra fredda e la crisi economica della Cina, ormai innegabile, non fanno che aggravare la crisi climatica.

Il commercio cinese

Per capire perché guardate i grafici qui sopra, messi a punto da QuantCube. QuantCube è una start up parigina composta di matematici, fisici, statistici ed economisti che lavorano come detecrive sugli indizi più insospettabili per capire in anticipo cosa succede alle principali economie del mondo e leggere i dati dei sistemi autoritari che non pubblicano informazioni trasparenti. In questo caso hanno usato il “sistema di identificazione automatica” (o transponder) dei cargo, per capire come sta andando realmente il commercio cinese. Risultato: sta crescendo con i Paesi cosiddetti “non occidentali” e invece sta de-crescendo con i Paesi occidentali. In altri termini, probabilmente anche per scelta politica, la Repubblica popolare sta accelerando la sua integrazione economica con quello che ora va di moda chiamare il Sud del mondo. E allenta invece i legami con l’Occidente.

I rapporti con i Paesi emergenti

Qui è nella linea celeste riportato l’andamento dell’export cinese nei prodotti da container e nelle materie prime grezze (“dry bulk”) con un gruppo di nove economie avanzate che include Stati Uniti, Francia, Germania e Italia e valeva nel 2021 il 30% di tutto il commercio mondiale della superpotenza asiatica. Come si vede, negli ultimi due anni gli scambi di fatto sono scesi (la stessa tendenza si ritrova anche per l’export dalle nostre economie verso la Cina). Dall’altra parte nella linea rossa invece c’è un gruppo di sedici Paesi emergenti - dalla Russia al Brasile, dall’India all’Indonesia, dal Vietnam all’Arabia Saudita - che rappresenta il 22% del commercio mondiale cinese. Con loro gli scambi di Pechino invece sono aumentati molto, nei due sensi. In altri termini, presto Xi Jinping dipenderà più per la crescita del suo sistema dai rapporti con Paesi come il Sudafrica, gli Emirati Arabi Uniti o la stessa Russia, che dall’Italia o dalla Francia. È un sovvertimento strisciante delle leggi della globalizzazione affermatesi almeno da quando, nel 2001, Pechino è entrato nell’Organizzazione mondiale del Commercio.

L’export in Europa

Il secondo grafico di QuantCube, qui sopra, ci aiuta a capire perché: colpa nostra, se vogliamo dirlo in modo forse un po’ troppo brutale. Ad andare male è infatti il commercio bilaterale dei cinesi con noi europei (linea rossa); quello con gli Stati Uniti (linea azzurra), malgrado le tensioni politiche, mantiene una dinamica un po’ migliore. E qui si può discutere sulla competitività imbattibile e forse sulla slealtà dei produttori cinesi di batterie, di pannelli fotovoltaici o magari di auto elettriche. Ma resta un fatto: Xi Jinping non trova la crescita che gli serve così disperatamente vendendo i prodotti della sua superpotenza industriale a noi; la trova in Paesi come l’India o l’Indonesia. Ma in quei Paesi le produzioni sono già a basso costo come e più che in Cina e il reddito medio dei consumatori è basso. Lì esportare grazie ai prezzi minimi del “made in China” è molto più difficile che farlo verso l’Europa. I prodotti indiani in India o quelli indonesiani in Indonesia hanno alla loro base dei salari anche più bassi rispetto a quelli della concorrenza cinese. E questa differenza fondamentale - rispetto agli equilibri degli ultimi venti anni - rischia di avere profonde implicazioni per l’ambiente e per il surriscaldamento globale.

Economia e occupazione in Cina

Di Xi Jinping e l’intero sistema a partito unico hanno necessità di confermare questa fonte di crescita vendendo beni e servizi al Sud del mondo, visto anche che il commercio con noi europei ristagna. Il terzo grafico di QuantCube rivela quanto impellente sia questa esigenza per Pechino: l’economia in genere e l’occupazione, in particolare, sono troppo deboli in Cina. E questo non è mai tranquillizzante per un sistema rigido e autoritario. Xi Jinping ha fatto “sospendere” la pubblicazione dei dati sulla disoccupazione giovanile, ma gli analisti di QuantCube capiscono lo stesso cosa succede usando le offerte di lavoro pubblicate online. Nel settore immobiliare, che direttamente o meno vale il 40% del prodotto interno lordo del Paese, le aziende cinesi cercano il 60% di nuovi addetti in meno di un anno fa. E tutti gli altri settori sono sotto ai livelli del novembre 2022, ad eccezione dell’energia. Se voi sedeste nel Politburo del Partito comunista cinese, sareste preoccupati. In gran parte sarebbe colpa vostra, perché a minare la seconda economia più grande della Terra sono la fissazione securitaria, il soffocante interventismo e l’incapacità del regime di gestire l’esplosione della bolla immobiliare. Tuttavia, quali dirigenti del partito, cerchereste di capire come poter tenere bassi i costi dei prodotti di esportazione “made in China”, per poter continuare a conquistare i mercati del Sud del mondo che sono così sensibili al prezzo. E questo è esattamente quanto sta accadendo.

Il costo energetico nei vari Paesi

Un modo in cui i cinesi contengono i costi, in sostanza, è tenendo bassissima la bolletta dell’energia nelle loro fabbriche. Il grafico che vedete qui sopra è prodotto da Enrico Mariutti, un analista indipendente italiano sul settore energetico molto seguito anche da alcuni dei principali osservatori internazionali. Mariutti il costo dell’elettricità nell’industria in vari Paesi (in centesimi di dollaro per Kilowattora). L’Italia, come vedete, perde di gran lunga la competizione. Abbiamo costi un terzo più alti della Germania, più del doppio rispetto alla Francia e tre volte più alti di quelli della Spagna. Il Qatar, l’Iraq, la Russia e l’Islanda invece vincono, producendo da sé l’energia primaria per le proprie centrali (geotermica per l’Islanda, da gas naturale per le altre). Ma la Cina viene subito dopo. Il segreto è semplice: circa il 60% dell’alimentazione di energia nella Repubblica popolare viene ancora da centrali a carbone, la più inquinante e nociva al clima fra le fonti fossili. Mariutti spiega che molti grandi gruppi cinesi riescono addirittura a portare il costo dell’elettricità in fabbrica a quattro cent a Kilowattora - il livello più basso del mondo, quindici volte meno dell’Italia - costruendo centrali a carbone interne ai loro stessi impianti.

Le centrali a carbone

Si potrebbe pensare che le autorità di Pechino vogliano ridurre o almeno stabilizzare la loro dipendenza dal carbone. In effetti nel settembre del 2021 il presidente Xi Jinping aveva annunciato che, se non altro, la Cina non avrebbe più finanziato la costruzione di centrali a carbone all’estero. Già, ma all’interno dei confini della Repubblica popolare? Be’, lì è un’altra storia. Come spiega Michael Davidson su Foreign Affairs (il 2 novembre scorso) «i governi provinciali cinesi hanno autorizzato la costruzione di più capacità di produzione elettrica in centrali a carbone negli ultimi dodici mesi di quanto abbiano fatto negli ultimi sei anni». E aggiunge: «Se questi impianti verranno costruiti e operati come d’abitudine, la Cina sfonderebbe di colpo tutti i paletti dei suoi impegni contro il cambio climatico, rendendo irraggiungibili gli obiettivi internazionali di limitazione del surriscaldamento globale». Una delle ragioni è che il governo cinese ha dichiarato che l’uso del carbone inizierà a scendere dopo il 2025, ma non ha precisato da quale livello: dunque molte imprese e autorità provinciali cercano di aumentare il più possibile la capacità di produzione elettrica più sporca che ci sia, prima della data-limite. Del resto, come si vede dai grafici sotto e sopra, il consumo e la produzione di energia per abitante in Cina superano ormai quelli dell’Italia o dell’Europa. Ma con una popolazione di 1,4 miliardi di persone.

Un modello di crescita sostenibile

Il risultato è nel grafico che vedete qua sopra. L’obiettivo di riduzione di emissioni a effetto-serra entro il 2050 per contenere l’aumento medio delle temperature a 1,5% gradi Celsius sembra ormai del tutto fuori portata. Il mondo continuerà a surriscaldarsi ben oltre quanto si sperasse. Ben oltre quanto si dichiari ufficialmente negli innumerevoli vertici per il clima. E la principale spiegazione si trova in Cina, l’economia che continua ad aumentare di più e con volumi più vasti l’immissione carbonica nell’atmosfera. Non è solo fatalità, né la traiettoria inevitabile di Paese emergente. È il frutto di un insieme di fattori. Ma alla base di tutti si trova l’incapacità di Xi Jinping - chiuso nel suo iper-nazionalismo aggressivo - di pensare un modello di crescita più sostenibile, in un sistema globale dominato dalle fratture e dalle grandi rivalità strategiche. Qualcosa mi dice che è meglio non tenere il fiato sospeso per il risultato della Cop28 di Abu Dhabi.

Questo articolo è apparso in origine sulla newsletter del Corriere della Sera «Whatever it takes», curata da Federico Fubini. Per iscriversi, cliccare qui.

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