Perché l’opinione pubblica può salvare la Terra dal crac
La notizia è su tutti i giornali (notizia, giornali): per la prima volta, nel documento finale di una conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, compare un riferimento a tutti i combustibili fossili. Non solo carbone, quindi, ma anche gas e petrolio. C’è chi giudica troppo blando l’impegno assunto per una riduzione graduale, e chi apprezza il passo avanti; chi ritiene che si sarebbe potuto fare di più, e chi è soddisfatto per quel poco o tanto che si è comunque riusciti a fare; chi, insomma, vede il bicchiere mezzo pieno e chi invece lo vede mezzo vuoto.
Sta il fatto che c’è un bicchiere, e soprattutto qualcuno che lo vede. Quel qualcuno ha un nome preciso, da tre secoli a questa parte: si tratta dell’opinione pubblica, un’invenzione quasi coetanea dello Stato moderno europeo di cui sarebbe il caso di andar fieri. Tre secoli, ho detto. Leggo infatti in quel piccolo gioiello che è la «Storia e critica dell’opinione pubblica», di Jürgen Habermas – ultimo rappresentante della gloriosa Scuola di Francoforte – che fu «nel corso della prima metà del diciottesimo secolo che l’argomentazione razionale il suo ingresso nella stampa quotidiana». In mancanza di senso storico, una proposizione del genere può procurare una lieve vertigine: e prima d’allora dove diavolo se ne stavano le argomentazioni razionali? Non è certo nel Settecento, che gli uomini cominciano a pensare. Questo ci sembra certo, quanto è certo che l’uomo è un animale razionale e che la filosofia è nata in Grecia ben più di due millenni fa. Ma Habermas sta dicendo non che l’argomentazione razionale nasca nel Settecento, ma che si riversa sui giornali solo intorno a quella data. Si potrebbe però essere persino più radicali, e provare a sostenere che grazie alla stampa prende forma un nuovo modello di razionalità: pubblica, aperta, discussiva.
Non solo i mezzi di comunicazione, ma pure forme e regole dell’argomentazione mutano storicamente. Nascono i giornali, ma nascono anche nuovi ideali di chiarezza, di obiettività, di correttezza. Nasce la necessità di informare il pubblico, e comincia pure a farsi sentire, tempo un altro secolo circa, il bisogno insopprimibile di una legittimazione democratica. È un processo lento di cui, dice Habermas, si conserva traccia nella storia delle parole: «Il publicum diventa pubblico, il subiectum soggetto, il destinatario dell’autorità suo interlocutore». Eccoci così, di nuovo, a Cop28. Perché tutti i documenti e le dichiarazioni e i protocolli stabiliti dalla conferenza trovano nell’opinione pubblica il loro interlocutore fondamentale, quello inventato in Europa tre secoli fa. Provate a immaginare infatti il febbrile lavorio diplomatico della Conferenza – i vertici di capi di Stato e di governo, le delegazioni, le sessioni plenarie, i meeting – provate a figurarvi tutto ciò senza giornalisti e agenzie di stampa, senza inviati, senza gli occhi del mondo puntati loro addosso: come in quei film apocalittici, in cui strade e città si svuotano e appaiono improvvisamente deserti, così apparirebbe il palcoscenico di Cop28, vuoto, lontano e privo di senso. Il comunicato conclusivo parla di «inizio della fine dell’era dei combustibili fossili», e non c’è dubbio: suona sin troppo ottimistico.
Ma quando Simon Stiell, segretario esecutivo delle Nazioni Unite, nel suo discorso di chiusura ha detto che «governi e imprese devono trasformare senza indugio gli impegni assunti in risultati reali» è evidente innanzi a chi parlava e a quale soggetto si rivolgeva perché incalzi governi e imprese: ancora una volta, la pubblica opinione. Tra tutti i temi in agenda, quello del riscaldamento globale e del cambiamento climatico è sicuramente il più sensibile alla legge dell’opinione pubblica. Dinanzi alla legge divina, diceva John Locke, padre del liberalismo politico moderno, giudichiamo se certe azioni siano o no peccaminose, dinanzi alla legge civile se siano o no delittuose, ma è dinanzi alla legge dell’opinione pubblica, o della reputazione, che giudichiamo se siano o no viziose, accettabili o inaccettabili.
A Dubai era effettivamente in gioco la reputazione degli Stati, e c’è voluto lì come ci vorrà in futuro un’opinione pubblica presente, attenta, vigile, perché la reputazione conti qualcosa e dia la spinta giusta. In Occidente, per fortuna, abbiamo ancora una sfera pubblica cosiffatta, ed è soprattutto grazie ad essa che progredisce la sensibilità ambientale. Il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Pichetto Fratin, con il suo inglese problematico non avrà fatto fare una gran figura all’Italia, nelle scorse giornate, rimanendo sostanzialmente ai margini delle trattative che hanno infine portato all’accordo, ma è toccato anche a lui, al termine dei lavori, esprimere soddisfazione per l’esito della conferenza. Perché a tirare è l’opinione pubblica, e a seguire sono i governi, e questa è essa stessa una buona notizia, anche se non dovesse esserlo del tutto la qualità dell’accordo raggiunto.
Stato di salute del pianeta e stato di salute dell’opinione pubblica sono insomma intimamente legati, è bene non dimenticarlo. Ed è bene, certo, preoccuparsi di come cambia il primo, ma pure di come cambia il secondo, avendo magari cura di costruire regole nuove, visto che gli spazi nazionali in cui appariva l’opinione pubblica tre secoli fa non hanno più la taglia dei problemi globali che sono chiamati a discutere apertamente e apertamente giudicare. Una nuova vertigine ci afferra: dove e come e in quale forma compariranno, (ma in realtà stanno già comparendo) le argomentazioni razionali che riguarderanno il futuro della Terra?