Navalny, il peso del dissenso nelle urne

Adesso bisogna vedere come si tradurrà l’omaggio di coraggio e di pietas, tributato ad Aleksej Navalny, nelle urne delle elezioni presidenziali che si terranno il 17 marzo in Russia. Nessuna illusione che possa esserci un quoziente per l’opposizione, tutta eliminata da una commissione elettorale serva del Cremlino. Perfino un innocuo candidato di bandiera per il no alla guerra come Boris Nadezhdin (il cui nome, con la stessa radice di nadezhda, speranza in russo, è da solo un programma) è stato eliminato.

Ma sarà interessante sapere se quella che il New York Times ha definito “una sorprendente dimostrazione di dissenso”, migliaia di persone ad accompagnare la salma del “nemico numero 1” di Vladimir Putin, finirà per incidere sull’affluenza alle urne.

Perché quello è l’unico dato che conterà, la sera del 17 marzo alla chiusura dei seggi, appositamente aperti per tre giorni proprio per indurre la gente a votare. Meno, o anche intorno, al 70 per cento di affluenza sarebbe uno smacco per lo zar, che con il trionfalistico discorso alla nomenklatura politica, militare e religiosa riunita al Cremlino e trasmesso in diretta in tutto il Paese, perfino nei cinema e nelle piazze, ha cercato il plebiscito oceanico.

È vero che Mosca non fa testo. La Russia profonda, quella che andrà alle urne, spinta anche dal clero ortodosso totalmente asservito al regime dal suo capo Kirill, probabilmente non sa che Navalny è morto e forse non sa neppure chi fosse Navalny: che il suo nome è stato bandito da radio, televisioni e giornali, e la popolazione extraurbana, in buona parte avanzata con l’età, non ha certo dimestichezza con internet e social media.

Ma il muro della disinformazione, o della non informazione, eretto dal Cremlino attorno a Navalny ha mostrato delle crepe. E questa è una lezione che l’incredibile funerale ha impartito a Putin. Premiando invece l’ostinazione delle donne di Navalny, soprattutto della madre Lyudmila, che ha peregrinato per giorni nel gelo siberiana per ottenere la restituzione del corpo del figlio e dargli una onorevole sepoltura.

Il Cremlino ha provato a fare terra bruciata attorno alle spoglie mortali di Aleksej Navalny. Negli ultimi giorni, in un crescendo di paranoia poliziesca, ha arrestato e condannato uno degli ultimi dissidenti storici ancora in libertà, Oleg Orlov, presidente di Memorial, l’ong Premio Nobel per la Pace. Ha fermato e multato, per “aver screditato le forze armate”, Sergej Sokolov, il direttore di Novaja Gazeta, il giornale di Anna Politkovskaja.

Ha vietato alle pompe funebri di assistere i familiari di Navalny nelle esequie. Ha schermato i cellulari, riducendone il campo al minimo livello del 3G nell’area della chiesa per impedire foto o filmati clandestini. Eppure c’erano migliaia di persone attorno alla chiesa, ad accompagnare il feretro cantando “la Russia sarà libera” e “l’amore è più forte della paura”.

E Anastasia, una ragazza di Novosibirsk, si è fatta più di duemila chilometri per venire a Mosca e postare: “sono venuta perché questo è un evento storico”. Mentre, ancora secondo il New York Times, 270 mila persone hanno seguito in streaming il funerale nella cronaca organizzata dagli alleati di Navalny e altri 150 mila lo hanno guardato su YouTube attraverso TvRain, un canale indipendente.

È stata la versione aggiornata del vecchio passaparola dei tempi sovietici, quelli dei samizdat, le autopubblicazioni clandestine che avevano la stessa funzione dei cellulari di oggi. Putin ha voluto ricreare l’Urss e i dissidenti rispondono come ai tempi dell’Urss.

Quando il grande violoncellista Mstislav Rostropovic, costretto all’esilio dal Cremlino di Breznev per la sua disobbedienza politica, dette il suo concerto d’addio, nel 1974, c’era una folla straripante dentro e fuori la Sala Grande del Conservatorio di Mosca. Nessun giornale aveva scritto che era l’ultima volta che suonava in patria: Rostropovic era una “non persona” per il Pcus, un innominabile.

Ma alla fine del concerto gli orchestrali tirarono fuori dalle loro sedie delle rose bianche per lanciarle al maestro e il pubblico piangeva uscendo dalla sala: il passaparola aveva vinto sulla disinformatsija, la disinformazione del regime. Come è accaduto per i funerali di Navalny.

Pur nella sua infinita arroganza Putin dovrà porsi qualche domanda dopo quanto è accaduto. Il trionfalismo muscolare del suo discorso al Cremlino, gonfio di minacce all’Occidente e di vanterie economiche, potrebbe scontrarsi, nelle urne delle presidenziali, con una realtà assai meno gloriosa.

Le mogli dei soldati cominciano a reclamare il ritorno dei mariti e le loro proteste si saldano con quelle dei sostenitori di Navalny, che non si sono impauriti neppure davanti ai 400 arresti tra coloro che portavano fiori negli improvvisati luoghi di commemorazione.

Mentre i risultati economici sono gonfiati da un’industria bellica che ha spinto perfino i panifici a produrre droni (è successo a Tambov, secondo un orgoglioso reportage della tv di Stato russa), mentre le infrastrutture cadono in pezzi per assenza di manutenzione: a Novosibirsk, a gennaio, interi quartieri sono stati allagati da acqua bollente per lo scoppio delle tubature del riscaldamento, lasciando poi al gelo per una settimana decine di palazzi di abitazione.

Quello che è successo dopo la morte di Navalny è la plateale conferma che Vladimir Putin ormai governa la Russia come il dittatore Kim Jong-un, suo alleato e fornitore di armi, governa la Corea del Nord: con la menzogna e il terrore. Il 17 marzo le urne ci diranno quanto i russi ne siano consapevoli.