Ucraina, “la telefonata di Putin” e il trattamento Dostoevskij: ecco il supplizio dei “desaparecidos” rapiti dai russi

KIEV – “La chiamano la ‘telefonata di Putin’: è quando ti attaccano gli elettrodi ai testicoli e ti danno la scossa”. Uriy Andreev si accende una sigaretta. Sorseggia un tè. Sembra calmo, ma un inferno gli brucia le viscere da otto anni. Te ne accorgi quando ti fa vedere, furibondo, orgoglioso, il suo tatuaggio sul braccio: “Figlio del Donbass”. Uriy è stato un prigioniero fantasma per sette mesi, un desaparecido, rapito dai separatisti russi a Lugansk, nascosto in una cella lercia e torturato senza sosta, sparito per la sua famiglia senza lasciare tracce, rilasciato senza un processo né un capo di accusa.

Uriy inspira, è una boccata lunga. “Ogni tanto mi infilavano un sacco di plastica sulla testa fino a farmi quasi soffocare”. E poi le botte, notte e giorno. E la fame, straziante. La sua colpa? Essere ucraino nei territori occupati da Putin. E non rassegnarsi al nuovo padrone. Oggi Uriy vive vicino a Chernobyl, coltiva il suo pezzo di terra. È vivo per miracolo. Dopo sette mesi di prigionia, un agente dei servizi russi lo ha riconosciuto: avevano fatto il servizio di leva insieme in Unione sovietica. E lo ha lasciato andare. La sua storia è finita anche in un meraviglioso documentario di Vadim Moiseenko, “The son of Donbass”.

Per le autorità ucraine, Uriy è un “ostaggio”. Dmytro Lubinets, il Commissario ucraino per i Diritti Umani, ha ufficializzato una cifra spaventosa. Sono 28mila i civili spariti nel nulla dall’inizio dell’invasione, rapiti dai russi. “I civili in ostaggio”, ha dichiarato l’ombudsman, “sono un nuovo sistema di repressione della popolazione civile perpetrato nei territori occupati dell’Ucraina”. Una città intera. Una tragedia cominciata nel 2014, con l’occupazione del Donbass e l’annessione della Crimea. E che sta assumendo proporzioni bibliche soprattutto dall’invasione militare del 2022.

Disegno di Serghiy Zakharov

Disegno di Serghiy Zakharov

 

È gente prelevata per strada, che sparisce senza poter più comunicare con i propri cari, che trascorre mesi o anni senza vedere un avvocato, senza un processo, che muore senza un perché. E da giugno del 2022, secondo l’ong Media Iniziative for Human Rights, gli ostaggi non finiscono neanche più sulle liste dei prigionieri da scambiare con i russi. Sono diventati ancora più invisibili. E l’ong chiede da tempo che il governo ucraino crei una commissione o un ministero che si occupi solo di questa tragedia.

Serghiy Zakharov 

Serghiy Zakharov 

 

In questa notte delle matite spezzate dal sapore sovietico, Serghiy Zakharov non ha mai smesso di disegnare. E continua a farlo anche a nove anni dalle sevizie russe. Le sue tavole raccontano la sua storia, ma da tempo sta raccogliendo anche quelle di altri ostaggi. Nel 2014, quando nella sua Donetsk sono cominciati ad apparire i separatisti, lui si è messo su un marciapiede e li ha disegnati sui muri. Lo hanno preso, lo hanno sbattuto in un carcere, una donna col passamontagna gli ha spiegato che stava insultando il loro dio, il capo della banda Igor Strilkov, e lo ha picchiato con il calcio del suo fucile. Il giorno dopo la separatista lo ha fatto inginocchiare e gli ha puntato un mitra alla testa: “Ho sempre voluto sapere cosa si prova prima di morire”, gli ha sussurrato. Lui le ha risposto “e allora leggi Dostoevskij”. Lei lo ha colpito di nuovo, ma lo ha risparmiato. E gli ha regalato, ignara, lo stesso destino del grande romanziere russo.

Disegno di Serghiy Zakharov

Disegno di Serghiy Zakharov

 

Ma nel mese e mezzo di prigionia, ci dice Serghiy, i russi hanno fatto finta di fucilarlo altre due volte. “La seconda volta mi hanno portato a una festa di compleanno di un capo separatista. Erano tutti ubriachi fradici e uno mi ha puntato la pistola alla testa. Era tutto talmente spaventoso che un altro prigioniero si è pisciato sotto”. Quando lo hanno liberato, all’ospedale gli hanno detto che le botte gli avevano spezzato tutte le costole. Quando gli chiediamo se ha mai visto un avvocato scoppia in una risata fragorosa: “ma quale avvocato, io non ero mica un prigioniero, mi hanno rapito”. La sua compagna era andata dai separatisti a chiedere se lo avessero catturato. “Le hanno sempre risposto di no. Per lei potevo benissimo essere morto”.

Liudmyla Huseinova

Liudmyla Huseinova

 

Anche il racconto dei tre anni di prigionia di Liudmyla Huseinova lascia senza fiato. Soprattutto perché questa donna minuta che incontriamo in un ufficio della sede dei giornalisti ucraini, ci fa sprofondare in un incubo senza mai scomporsi. Neanche quando ci racconta di quella guardia russa cui ha fatto la domanda delle domande dei desaparecidos ucraini: “perché sono qui?”. La guardia russa le ha risposto “parli troppo. E quindi, siccome sei troppo vecchia per essere stuprata, ti faremo lavorare di bocca”.

Liudmyla è stata arrestata a Nova Azovka, in Donbass, nel 2019. Perché aiutava gli orfani ucraini e ha messo un like a un post di Facebook che denunciava l’arrivo degli “orchi” russi. E perché a casa aveva i libri del grande poeta ucraino Taras Shevchenko. I primi 50 giorni, li ha trascorsi in una cella in cui non poteva sedersi né sdraiarsi tra le sei di mattina e le dieci di sera. “C’erano le telecamere, non potevi sgarrare”. Di notte le luci abbaglianti restavano accese ed era vietato coprisi gli occhi. Se “sgarravi” ti sbattevano in una cella dove potevi stare solo in piedi, anche per otto ore. La prima colazione, alle sei di mattina, quando la accompagnavano in cortile con un sacco in testa, erano i pugni e i calci delle guardie. “A volte mi prendevano la testa e me la sbattevano contro il muro”.

Ma l’inferno vero è stata la seconda prigione, dove ha condiviso la cella con venti detenute comuni, assassine, ladre, spacciatrici. Non c’era neanche più un wc, solo un buco in terra per fare i bisogni, coperto da una bottiglia di plastica per non far uscire i ratti. “Fare la doccia era un’impresa. La fogna non funzionava, il pavimento era pieno di escrementi e quindi coperto con delle casse di legno per camminare. Per fare la doccia avevamo 5 minuti, massimo 10 quando le guardie erano di buonumore. La doccia era un filo d’acqua. Un giorno lavandomi gli occhi col sapone ho allungato la mano per prendere l’asciugamano e ho toccato un ratto. Da allora non ho più chiuso più gli occhi”.

Liudmyla in tre anni non ha mai potuto vedere suo marito. Poteva vedere l’avvocato una volta ogni due mesi. Riusciva a chiamare suo marito solo di nascosto, quando le sue compagne di cella glielo concedevano. Alcune nascondevano un cellulare nella vagina. “Quando me ne hanno dato uno e ho fatto il gesto di pulirlo, si sono arrabbiate tantissimo. E non me l’hanno più dato per tre mesi”.

Anche a lei è toccato di tanto in tanto il “trattamento Dostoevskij”: minacciavano il plotone d’esecuzione. Solo a ottobre del 2022 l’hanno finalmente liberata, senza un processo, senza mai aver formulato un capo d’accusa contro di lei. Liudmyla ci chiede di nominare le donne che sono ancora detenute, che lei sta cercando di liberare: tra di esse, Svetlana Dovhal, Olena Fedoruk, Maryna Yurchak, Natalia Vlasova. “Non dobbiamo dimenticarle”, implora. Alcune sono finite nelle carceri in Russia.

I russi non l’hanno spezzata: quando era ancora in Donbass, Liudmyla aveva portato di nascosto a casa una bandiera ucraina che le avevano regalato i soldati di Leopoli, dedicata “ai patrioti di Nova Azovka”. Ha giurato a se stessa che sarà la prima cosa che andrà a prendere quando l’Ucraina sarà liberata.