Conte non molla Schlein ma vuole rialzare la voce. Raggi valuta la scissione

ROMA — Il Conte ammaliato dal campo largo, che diceva «governeremo di nuovo col Pd», non è durato nemmeno 9 settimane e mezzo, ma 2 settimane scarse: tra la sbornia sarda e la scoppola abruzzese. E adesso? L’ex premier non vuole tornare in versione puramente combat, anti-Pd, com’era un anno e mezzo fa. Ma da qui alle Europee dovrà marcare il territorio, sganciarsi dal ruolo di stampella di Elly Schlein. «Batterà molto sul no alle armi», raccontano i suoi. Anche per evitare la concorrenza a sinistra di Michele Santoro. Lo stesso discorso vale per le alleanze: se in Basilicata ha digerito (eccezione) un candidato con l’etichetta Pd, in Piemonte ha annunciato la corsa solitaria dei 5 Stelle, vecchia maniera. Per il resto, potrà sostenere di avere dato le carte sulle Regionali, saldando l’asse coi democratici unicamente alle sue condizioni, cioè solo con candidati civici o con una pentastellata come Alessandra Todde, prima governatrice nella storia dei 5S, in una regione in cui il Movimento ha preso appena il 7,8%.

Se l’ex premier non può stringersi definitivamente nell’abbraccio con Schlein, non è soltanto una questione di posizionamento elettorale. Ma anche di equilibri interni. Un pezzo di Movimento fatica ancora a digerire un asse strutturale col Nazareno. Non solo i vecchi elettori grillini, ma anche una fetta importante di classe dirigente: in Piemonte è stata Chiara Appendino a silurare la trattativa coi democratici. E sarà interessante, a questo proposito, capire cosa succederà a Roma dopo le Europee. C’è una voce che rimbalza da qualche settimana in Campidoglio, dove siede ancora una figura ingombrante per l’ex premier come l’ex sindaca Virginia Raggi: si comincia a parlare di una possibile scissione nel Movimento, cioè di un passaggio armi e bagagli di consiglieri comunali e municipali a una nuova formazione. Quale? “Schierarsi”, l’associazione di Alessandro Di Battista, nata per ora come movimento cultural-sociale. La mossa, di cui discutono gli esponenti romani da Natale, sarebbe quasi obbligata, se il Movimento in vista delle elezioni Comunali del 2026 si indirizzasse verso un patto col Pd. Un’operazione così, nella Capitale che fu il primo vero laboratorio di governo su larga scala del Movimento e che nel 2016 anticipò il boom delle Politiche del 2018, potrebbe stimolare emulazioni in altre città dello Stivale. Chissà. Di sicuro Raggi sta «dando una mano» all’associazione di Dibba.

In Parlamento, Conte pare avere una falange nei gruppi parlamentari. Non c’è un’ala ostile strutturata, non c’è il controcanto quotidiano, come ai tempi di Di Maio. Però va considerato un aspetto, che non sarà marginale affatto, nella seconda parte della legislatura: il vincolo dei due mandati. Una trentina abbondante tra deputati e senatori oggi è al secondo giro nel Palazzo. E non vuole fare la fine di Paola Taverna e Vito Crimi, che per tutto il 2022 Conte aveva rassicurato, raccontando che avrebbe convinto Beppe Grillo a cedere sull’ultimo tabù. Senza riuscirci. Non a caso ha fatto rumore, nei gruppi contiani, un post pubblicato dall’ex comico qualche giorno fa sul suo blog, in cui ribadiva che i due mandati rimarranno un pilastro del Movimento. Un post «spintaneo», sospetta più di un veterano a bassa voce, quasi fosse stato suggerito da Conte, proprio mentre alcuni esponenti della vecchia guardia provavano a riaprire la discussione sui mandati in ottica Europee. Ma per giugno non ci sarà alcuna deroga. Conte, come per le Politiche, nominerà i capilista, pescati dal suo listino blindato, in cui figurerà Pasquale Tridico. Gli altri, quelli passati per il voto online sulle auto-candidature, saranno relegati più in basso. A proposito di doppio mandato, qualche grande ex spera almeno di ottenere il via libera a correre per le Comunali. Una sorta di “mandato zero” al contrario. Che permetterebbe a Roberto Fico di candidarsi sindaco di Napoli (con Gaetano Manfredi dirottato in Regione) e a Taverna di strappare almeno un posto da consigliere comunale a Roma. Spifferi, ragionamenti interni, per ora. In attesa che Conte apra davvero il dossier.

A differenza del Pd, dove Schlein sarà costretta a scavallare almeno il 20% per garantire la sopravvivenza della sua leadership, nel M5S non c’è un’asticella, per le Europee. «Siamo sempre andati peggio rispetto alle Politiche», dicono nel giro dell’ex premier. Però se le cose finissero davvero male, cioè con un risultato più verso il 10% che verso il 15, le carte potrebbero rimescolarsi. Anche perché le amministrative si confermano un bagno di sangue: tra il 2023 e il 2024 il Movimento è sprofondato sotto al 4% in Lombardia e ha rimediato tra il 7 e l’8% in Lazio, Molise, Sardegna e Abruzzo, regione in cui alla tornata precedente era al 20%. «Ma dipende tutto da Beppe, se vorrà davvero tornare a un direttorio», ammettono anche i pochi apertamente scettici sul nuovo corso. Ma lo dicono senza farsi troppe illusioni. Perché con 300mila euro all’anno in tasca bonificati dal Movimento, per ordine di Conte, pochi sono convinti che il fondatore possa mettersi di traverso.