Diario da Gaza / La Striscia divisa: al Nord si muore di fame, al Sud si sogna la tregua

RAFAH – Ci sono due Gaza oggi nella Striscia, una al Nord che muore di fame; l’altra al Sud che sogna la tregua.

Qui a Rafah nelle ultime ore tira un vento di speranza. Arrivano da fonti egiziane le notizie di una tregua imminente e le persone, ormai stremate da condizioni disumane, si aggrappano a tutto pur di trovare un filo di serenità. Corre voce che l’accordo sia vicino e che, anche se non ancora ufficiale, Hamas stia iniziando ad accettare le condizioni: gli ostaggi civili verranno rilasciati in cambio di 3mila prigionieri palestinesi, i bombardamenti cesseranno per 45 giorni.

La mia percezione, così come quella degli altri sfollati qui al Sud, è che passeremo un Ramadan in sicurezza. Questo non vuol dire che torneremo alla normalità o che rientreremo nelle nostre case, la maggior parte non ne ha più una, ma che almeno potremmo trascorrere il mese sacro nelle nostre tende senza temere ogni secondo l’arrivo di una bomba. Rispetto alle altre volte in cui si è parlato di un accordo quasi raggiunto che è poi sfumato, oggi le persone hanno bisogno di credere che stavolta sarà reale. Il fatto che ci sia il Ramadan inoltre rafforza le nostre speranze: è un momento per noi troppo importante, sentiamo il desiderio di passarlo insieme, in famiglia. Sappiamo che l’incubo sarà soltanto spostato più in là, che presto la guerra ricomincerà ma ci vogliamo credere anche per i nostri fratelli rimasti al Nord che stanno vivendo una delle fasi più drammatiche dall’inizio della guerra.

Da Gaza City a Jabalia fino a Beit Lahia non c’è più cibo. Due giorni fa le autorità israeliane hanno annunciato che apriranno il valico di frontiera di Karni, sul lato israeliano della barriera, per permettere l'ingresso di maggiori aiuti umanitari per la popolazione nel Nord. È chiuso dal 2011 e il suo ripristino rappresenta un grande passo perché significa che cibo e medicinali arriveranno direttamente da Israele. Un altro segnale che leggiamo come un’anticipazione della tregua che starebbe per iniziare e nella quale è previsto anche un incremento degli aiuti. A raccontarmi le condizioni disperate delle circa 250mila persone rimaste al Nord è stata mia sorella. Siamo riusciti a parlarci al telefono dopo giorni di interruzione delle comunicazioni. Insieme al marito, ai due figli e ai nipoti, uno dei quali è stato ferito durante un bombardamento, vivono in otto nella mia casa nel campo profughi di Jabalia.

Hanno a disposizione soltanto l’acqua del rubinetto, che in teoria non sarebbe potabile, e bevono quella con conseguenze evidenti sulla loro salute. Per quanto riguarda il cibo tutto quello che è rimasto loro sono alcune scatole di fagioli che cercano di centellinare: in due giorni hanno fatto soltanto un pasto. La disperazione è tale che i bambini vengono mandati a cercare avanzi di cibo o sacchi di farina abbandonati tra le macerie delle case distrutte. Mio nipote ha trovato nella loro casa bombardata un sacchetto di riso e per la famiglia è stata una grande festa. Nonostante tutto, rispetto agli altri, si sentono persino fortunati. Conoscono persone che mangiano da giorni soltanto cibo per gli animali già rosicchiato dai topi e la triste conta delle vittime della fame pare sia arrivata ad almeno sei bambini morti. In assenza di aiuti e in queste condizioni non credo che le persone possano vivere ancora più di una settimana. La misura della disperazione la danno le manifestazioni spontanee che si sono tenute ieri. Esistono dei video verificati che le mostrano. Si vedono persone sono scese in strada a Jabalia che gridano: dicono che stanno morendo di fame, chiedono la fine del governo di Hamas perché è per colpa loro che soffrono e muoiono.