
Diario da Gaza – Per noi a Rafah non c’è più tempo. La tregua serve subito
RAFAH — Oggi nessuno è uscito di casa. Parlo da una stanza piena di gente – uomini, donne e bambini – a Rafah. È l’ultimo rifugio possibile per un milione e mezzo di persone che sono già scappate da altri posti. Anche chi ha un lavoro, e qui ci sono alcuni dipendenti di organizzazioni non governative, in questi giorni preferisce stare in una stanza sovraffollata come questa – se è così fortunato da averne una – piuttosto che uscire in strada. C’è troppa paura dei bombardamenti israeliani, anche di giorno. E di giorno è quando colpiscono di meno, perché più si va verso il tramonto e verso la notte e peggio è.
La gente a Rafah è paralizzata. Il premier israeliano Netanyahu ha affermato che le forze armate sono pronte ad attaccare anche qui. L’esercito israeliano ha detto che invaderà anche questa città entro un paio di giorni, ma questa volta c’è una grande differenza con il resto della Striscia: non ci sono più opzioni a disposizione per allontanarsi dai combattimenti. Non sappiamo più dove andare. Se anche riuscissimo a raggiungere Gaza City nel Nord - teatro della prima battaglia dell’invasione - non avremmo più le case dove dormire, non c’è acqua, non c’è elettricità, non ci sono i mercati, non c’è cibo, non si può vivere lì. E lo stesso vale per le altre zone della Striscia. Non sono più abitabili.

Khan Yunis, che è l’ultima città a essere stata presa dagli israeliani, è ancora troppo pericolosa. C’è ancora gente che scappa da lì, non è il caso di andarci. Prima c’era sempre un posto dove spostarsi, adesso siamo rimasti senza scelta. Le nostre teste sono vuote, non troviamo la soluzione.
Questa notte è stata parecchio agitata perché ci sono stati molti bombardamenti israeliani, non abbiamo dormito e adesso stiamo un po’ recuperando. C’è un misto di speranza e di delusione per il cessate il fuoco, se ne parla tanto ma nessuno sa dire davvero se e quando comincia e qui non ci resta più tempo. Continuano a parlarne come se stesse per arrivare, ma a noi servirebbe subito. Adesso.

La gente che da sempre vive a Rafah è pure molto nervosa: la città non è stata ancora distrutta, è l’ultima che ancora assomiglia alla Gaza di prima del 7 ottobre. Hanno paura che farà la stessa fine di Gaza City e di Khan Yunis.
Dietro di noi c’è il muro con l’Egitto. È sempre più alto, ogni giorno l’esercito egiziano lo alza un po’ di più e costruisce altre barriere, temono che quando l’esercito israeliano avanzerà dentro Rafah la gente qui proverà a scavalcare in massa il confine in preda al panico.

Nessuno lo ha mai fatto finora perché nessuno c’è riuscito, ma gli egiziani pensano che potrebbe succedere in caso di catastrofe. Vogliono rendere impossibile quella via di fuga. Questo è quello che ci aspettiamo qui a Rafah quando comincerà l’operazione israeliana. Una catastrofe.
In caso di attacco israeliano potrebbero ordinarci di spostarci ancora di più nella zona a Ovest di Rafah, ma qui ci chiediamo come potrebbe essere possibile fisicamente. Già adesso siamo compressi e schiacciati a ridosso del confine egiziano, se già adesso non ci stiamo come possono pretendere che ci trasferiamo in una zona più piccola? Io mi sposto con la mia famiglia e non ho tende, ho trovato questo tetto a Rafah sotto il quale sono ospite, mi sono ricostruito un’esistenza temporanea qui. Non so proprio come e dove spostarmi.