
Nella morsa di Rafah cacciati da Israele e con i fucili puntati dei soldati egiziani
RAFAH — Non potrebbe andare peggio: dopo la decisione israeliana di estendere le azioni militari anche a Sud della Striscia, entrando coi carri armati a Khan Yunis –nella zona dove proprio loro avevano detto di evacuare definendola sicura - un milione e mezzo di persone è ora stretta in una morsa. Spinta sempre più a meridione, bloccata nella città al valico di frontiera con l’Egitto, la gente è ora intrappolata fra l’esercito israeliano che spinge da un lato e quello egiziano che ha rafforzato il controllo del confine dall’altro.
Letteralmente pigiati gli uni sugli altri: Rafah, infatti, è una cittadina che accoglieva appena 200mila persone e in quarantott’ore se n’è trovata un milione di più. Gli abitanti, va detto, stanno facendo una gara di solidarietà, prendendosi in casa tutti quelli che possono e mettendo a disposizione ogni spazio coperto. Chi vi scrive, ad esempio, si trova a condividere con 26 familiari una stanza fatiscente che era usata per conservare attrezzi da lavoro. Il proprietario l’ha ripulita per noi, ci ha dato da mangiare e da bere, condividendo i suoi pochi beni senza nemmeno voler essere pagato. Dalla finestra si vede l’Egitto: è lì a 30 metri da noi. I militari stanno col fucile spianato, pronti a sparare su chiunque tenti si superare le barriere.

Tanti altri sono meno fortunati di noi. Le strade sono occupate da persone che non hanno potuto fare di meglio che gettare a terra i propri materassi stendendo una coperta su pali a mo’ di soffitto. Tutti vagano in cerca di cibo: ma nei negozi e nelle bancarelle non se ne trova più. Qui un tempo si faceva il mercato del pesce: ma da quando la settimana scorsa la marina israeliana ha sparato sui pescatori di Rafah e Deir el-Ballah, temendo che le barche servissero a far uscire uomini di Hamas, nessuno si è avventura più in mare.
Non solo: i negozianti sono guardinghi. Devi farti “raccomandare” da un abitante locale e mostrar loro che hai soldi per convincerli a darti della farina a prezzi da mercato nero. Un sacco da 25 chili ora costa 300 shekel (l’equivalente di 75 euro): ne costava 50 una settimana fa. Una cifra folle per chi non ha più nulla e per mangiare si è già venduto pure gli ultimi abiti di ricambio che aveva. Non resta che bussare alla porta della Mezzaluna Rossa, i cui magazzini sono controllati a vista da uomini armati per evitare saccheggi proprio come quelli dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. Sono gli unici che ancora distribuiscono cartoni con un po’ di viveri, a secondo della grandezza della famiglia. Che poi bisogna però razionare con cura perché le consegne avvengono solo una volta alla settimana.
[[(gele.Finegil.Image2014v1) PALESTINIAN-ISRAEL-CONFLICT]]
Episodi di violenza ci sono già stati: nei pressi di Khan Yunis un camion che trasportava un carico di acqua minerale è stato bloccato, l’autista costretto alla fuga con la folla ad impadronirsi del carico. Pure al valico la tensione è tanta. Ci sono quelli che ancora sperano di uscire perché hanno passaporto straniero e vivono praticamente incollati al check point, dove si presentano tutti i giorni, sperando che prima o poi li faranno uscire. Ieri sono uscite delle ambulanze che portavano feriti gravi in Egitto, ma ogni apertura e chiusura di cancelli avviene fra mille cautele. Ora anche sui pochi camion di aiuti che entrano ci sono uomini armati e pronti a difenderli. Hanno perfino sparato in aria e per tutta risposta la gente ha reagito con una sassaiola. Drammatica è anche la situazione sanitaria: a Rafah c’è un solo ospedale, piccolino, poco più di un Pronto Soccorso, ed è già al collasso. Con così tanta gente ammucchiata in uno spazio ristretto e coi medicinali che già scarseggiavano anche prima, nuove malattie non tarderanno a diffondersi. Il morale di tutti è sotto le scarpe. La tregua ci aveva dato la speranza che potessimo vedere quanto meno l’inizio della fine. Invece nelle ultime 24 ore sono morte ben settecento persone. Non ci resta che tentare di sopravvivere. Ma non sappiamo cosa ci riserva il domani.