Nel villaggio drusoMajdal Shams colpito dal razzo, 12 maglie nere dei bambini e bare bianche: «Il rifugio era dietro la porta»

diMarta Serafini

A Majdal Shams le vittime avevano massimo 16 anni. Fischiati i ministri

Le 12 maglie nere in campo, lacrime sulle bare bianche. «Il rifugio era dietro la porta»

Drusi in lutto alle esequie di 10 dei 12 ragazzini uccisi sabato nell’attacco missilistico al villaggio druso Majdal Shams, sul Golan (Afp)

DALLA NOSTRA INVIATA 
MAJDAL SHAMS - «Siamo in mezzo. E ne paghiamo il prezzo anche se la nostra comunità è sempre rimasta neutrale». Mahmoud ha 28 anni. I capelli tagliati alla moda, come tutti gli altri ragazzi di Majdal Shams. Indossano tutti maglie nere, in segno di lutto. Sabato pomeriggio, Mahmoud era in casa a guardare la televisione. «Sono i più piccoli che vanno a giocare a calcio, cosa devono fare?». Al campetto c’era Salah, 27 anni. Trema ancora quando racconta. «Ho visto parti del corpo dei bambini sparsi ovunque, non riesco nemmeno a pensarlo», sussurra mentre gli occhi vagano verso il muretto ancora intriso di sangue. 

Sul campo da calcio di Majdal Shams, il giorno dopo hanno messo 12 sedie ricoperte da 12 drappi neri. La lista dei nomi è stata resa pubblica quasi subito. Tra le vittime, anche i 4 fratelli Abu Saleh: Yazan Nayeif, Ameer Rabeea, Hazem Akram, Fajer Laith. Giocavano tutti a calcio e sognavano, un giorno, di far parte del Mamba, la squadra locale. Nessuna delle vittime supera i 16 anni. «Abbiamo sentito suonare la sirena ma non c’è stato il tempo, sette secondi nemmeno. E pensare che il rifugio è proprio lì vicino alla porta», racconta un altro ragazzo. 

Sul rifugio, la targa recita «Donato con amore da Israele». Di amore nell’aria per Israele però non ce n’è tantissimo. I soldati dell’Idf presenziano, rilasciano dichiarazioni alla stampa e concedono interviste alle televisioni. «Abbiamo conferma che si è trattato di un singolo missile di Hezbollah, un Falaq-1, sparato da Sheba che è proprio oltre il confine», afferma il maggiore Ron Kaplan delle forze di terra israeliane. 

Un rappresentante della comunità e testimone oculare del massacro, Samir Halabi, si mette a urlare davanti alle telecamere. «Dov’è il governo quando ci deve proteggere? Ora devono bruciare il Libano! Bruciare Nasrallah! Basta! Così come avete attaccato lo Yemen, dovete attaccare adesso il Libano e la Siria». Una funzionaria del governo israeliano si avvicina e cerca di placarlo. Ma partono gli applausi dei ragazzini che sono ancora a bordo campo ad osservare e la funzionaria è costretta a battere in ritirata per evitare i fischi. 

Le donne di Majdal Shams se ne stanno in disparte, piangono di nascosto senza farsi vedere, girano il volto dall’altra parte davanti agli obiettivi. Ai funerali della mattina cui hanno partecipato in migliaia si sono chinate sulle bare con i loro veli bianchi, come è usanza drusa. Le esequie sono state partecipate all’inverosimile. Anche alcuni ministri del governo Netanyahu si sono fatti vedere ma sono stati fischiati. Bezalel Smotrich, soprattutto. «Io sono venuta qui dalla Galilea a portare sostegno alla comunità non a fare politica», spiega Ghalil. Con lei, un gruppetto di altre donne, si sono messe in automobile alle prime luci dell’alba. «Siamo partite perché non vogliamo lasciare le nostre sorelle a piangere da sole». 

La scientifica continua a raccogliere frammenti di ossa dal terreno. «Il corpo di uno dei bambini non è stato ancora identificato», spiega a bassa voce uno degli incaricati alla raccolta delle prove. Vicino due donne piangono, sono la sorella e la madre di un bambino che risulta ancora scomparso da ieri. Si stringe la comunità, intorno alla sua bandiera colorata, che ricorda quella palestinese e che su alcuni edifici viene issata insieme a quella israeliana. Pochi chilometri più in là, oltre la Blue Line, ci sono i militari italiani di Unifil. Tutta la regione è in stato di allerta. «Il razzo è arrivato dal Libano non abbiamo alcun dubbio», dicono due anziani che indossano il caratteristico fez bianco e rosso dei drusi. Quasi nessuno a Majdal Shams vuole sentire parlare di teorie complottiste, nessuno crede alla versione di Hezbollah che parla di un missile dell’Iron Dome caduto per sbaglio. «Non diciamo sciocchezze, sono nove mesi che ci troviamo in mezzo al fuoco e che ci piovono in testa i razzi di Hezbollah, era inevitabile». 

«Oltre questo cartello chiunque è in pericolo di vita». Qualche chilometro prima di Majdal Shams, l’avvertimento non lascia spazio ai dubbi. Sul Golan, ad essere sulla linea di tiro ci sono abituati da sempre. Ma questa strage è diversa, ha lasciato una ferita che sarà difficile far rimarginare. Dopo il leader della comunità drusa, arriva a pregare anche quello cristiano. In questa parte di mondo le divisioni religiose contano poco, si cerca di vivere insieme e di coltivare la terra. «Ma ora abbiamo paura di un’escalation. E di finire in mezzo ad una guerra più grande». Gli anziani si avviano verso casa, il sole inizia a calare su Majdal Shams. Intanto più a valle, verso il lago di Tiberiade, dove sono stati portati i bambini feriti, anche quelli più gravi, si prega. Non importa quale Dio. Basta che li salvi.

29 luglio 2024

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