Repubblicani pronti alla battaglia, ricorsi legali e raffica di post: le manovre per demonizzare Kamala Harris
E ostacolare l’inserimento nelle liste dei nuovi candidati. Fuoco di sbarramento contro la minaccia di una candidata più giovane e di un ticket più centrista con un vice moderato
NEW YORK - I repubblicani cercano di minimizzare le conseguenze per Donald Trump del cambio dell’avversario col quale dovrà confrontarsi: «più facile battere Kamala» dice The Donald. Mentre il suo portavoce, Chris LaCivita, liquida la questione con una battuta: «Puoi spostare quanto vuoi le poltrone sul ponte di una nave che sta affondando: il risultato finale non cambia».
Potrebbe avere ragione, ma poi lui stesso, e l’organizzazione di una campagna repubblicana che non vuole correre rischi, preparano un fuoco di sbarramento contro la minaccia rappresentata non solo da una candidata più giovane, ma anche da un ticket che probabilmente sarà più centrista con la scelta di un vice moderato. La controffensiva viene lanciata almeno su tre fronti.
I fronti
Il primo: una valanga di spot televisivi e di post sulle reti sociali contro Kamala (attacco già partito in Pennsylvania e altri Stati-chiave). Demonizzata sotto vari aspetti: in primo luogo l’onda dell’immigrazione clandestina diventata negli ultimi due anni emergenza nazionale. Contenerla era la mission impossible affidata da Biden alla Harris fin dal suo insediamento, nel 2021. Lei non aveva molte carte da giocare, ma non si può dire che le abbia usate in modo efficace.
La campagna di Trump elenca, poi, tutte le prese di posizione della Harris vicine a quella della sinistra radicale (come il sostegno dato al piano di Bernie Sanders per offrire sanità pubblica a tutti i cittadini), per dipingerla come una comunista. Quindi l’accusa di aver mentito agli americani contribuendo per anni a diffondere bugie sullo stato di salute di Biden.
Terzo, e più potente, fronte d’attacco, il tentativo di ridicolizzarla: vengono riproposte in continuazione, negli spot ma anche nelle news delle reti di destra, carrellate delle sue risate nervose, a volte perfino un po’ sgangherate. La Fox gliene ha dedicata una dal titolo Laughable, ridicola. E, poi, immagini di tutte le volte che in eventi pubblici seguiti da momenti conviviali ha ballato coi presenti o fatto mosse un po’ goffe.
L'offensiva
La seconda linea dell’offensiva è sulla scarsa trasparenza di un ritiro avvenuto senza che il presidente si sia fatto vedere e con l’endorsement della Harris separato dalla lettera di rinuncia al secondo mandato: quella che passerà alla storia. Per gli anchor di destra Biden è tenuto ostaggio, non voleva firmare, è stato costretto. Qualcuno (il conduttore Levin) ha fatto addirittura un parallelo con Hu Jintao, l’ex presidente cinese che nel 2022 fu rimosso con la forza dal suo posto durante la cerimonia di chiusura del congresso del Partito comunista sotto lo sguardo indifferente di Xi Jinping.
Apparentemente qui l’obiettivo principale, sembra quello di ottenere le dimissioni immediate di un Biden considerato già ora non in grado di svolgere le sue funzioni, se ha scoperto di non avere le energie per ricandidarsi. In realtà a piegare Biden pare sia stata l’implacabile realtà dei numeri di sondaggi disastrosi, più che la salute, ma insistere sulle dimissioni serve ad alimentare altro caos in campo democratico. Ed è paradossale che J. D. Vance, dando un’intervista a fianco di Trump, abbia chiesto di usare contro Biden lo stesso 25esimo Emendamento della Costituzione (rimozione del presidente per incapacità manifesta e certificata) invocato anni fa dai democratici nel tentativo di neutralizzare un Trump scatenato contro le istituzioni.
Leggi elettorali
Terzo fronte per tentare di contrastare la Harris: mettere bastoni tra le ruote legali al processo di sostituzione di Biden. Lo speaker Mike Johnson avverte che in America ci sono 50 Stati ognuno dei quali ha leggi elettorali diverse. Non è detto che tutto fili liscio dappertutto.
Secondo Fox News potrebbero esserci problemi in tre Stati «in bilico»: Wisconsin, Georgia e Nevada. La Heritage Foundation (dalla quale Trump prende le distanze a parole per Project 2025, ma che continua a lavorare in profondità) sta preparando una serie di ricorsi legali per contestare, dove possibile, l’inserimento nelle liste dei nuovi candidati. L’avvocato dei democratici Marc Elias sostiene che non c’è da preoccuparsi: nessuno Stato stamperà le schede elettorali prima della convention democratica di fine agosto, è legittimo proporre nuovi candidati. Ma ammette che ci saranno tentativi di far deragliare i processi. E, procedure legali a parte, Trump sfrutterà sicuramente la cosa accusando di nuovo i democratici di trucchi e forzature elettorali.
Qualche preoccupazione i democratici ce l’hanno: in alcuni Stati i termini per la presentazione dei candidati scadono negli stessi giorni della loro convention di Chicago (19-22 agosto): per questo rimane probabile che il partito, anche se ancora non lo ha comunicato formalmente, faccia scegliere ai delegati di Biden, ormai liberati da ogni vincolo, il nuovo candidato per la presidenza in un «roll call» virtuale da tenere tra il primo e il 7 agosto.