La salute di Biden e il ritiro: «È demenza? Se diagnosticata non l’avrebbero mai nascosta»
Paolo Maria Rossini: «I sintomi del declino mentale non riguardano il modo di muoversi o il fatto di sbagliare nomi. Il ritiro è il risultato della pressione mediatica»
«Quella di Joe Biden è stata una scelta politica, non medica». Paolo Maria Rossini — neuroscienziato, neuroricercatore, direttore del dipartimento di neuroscienze all’Istituto di ricerca San Raffaele di Roma, buon conoscitore della storia americana per aver lavorato diversi anni negli Usa — esclude che dietro la decisione di Biden ci possano essere altre ipotesi.
Che significato attribuisce al ritiro di Biden? S‘è detto negli ultimi tempi che fosse malato.
«Guardi, sfido chiunque di noi al di fuori dello staff del presidente a tentare una diagnosi sia pur approssimativa. Non abbiamo elementi per valutare».
E le ipotesi di demenza senile?
«Mi rifiuto di pensare che i neurologi che lo seguono non l’abbiano diagnosticata se davvero avesse mostrato segni di demenza. La malattia oggi viene studiata con strumenti sempre più avanzati, infallibili. È inquietante pensare che, pur essendosene resi conto, abbiano tenuta nascosta una verità da cui dipendono le sorti del mondo».
Da tempo però Biden camminava male, incespicava nel parlare o addirittura sbagliava nomi e riferimenti: non conta?
«Non significa che fosse demente. Movimento e capacità cognitive sono indipendenti. I sintomi del declino mentale non riguardano il modo di muoversi o il fatto di sbagliare nomi. Pensiamo a Roosevelt che si spostava in carrozzina e ha governato dal 1933 al 1945. Non credo che Biden soffra di demenza, anche dal punto di vista statistico i numeri non avvalorano questa ipotesi. L’85 per cento degli anziani è normale come capacità cognitive e solo la minoranza è ammalata di demenza. Se hanno fatto ritirare Biden solo perché vecchio la tesi non regge ugualmente».
Quindi?
«Credo che le sue siano state normali défaillance».
Potrebbe avere il Parkinson, allora?
«Parliamo di una malattia del movimento. Papa Giovanni Paolo II ne ha sofferto per 12 anni e ciò non ha interferito, se non alla fine, con la sua lucidità. Forse potrebbe essere all’inizio del Parkinson, che si tiene bene sotto controllo».
Che idea si è fatto?
«Il ritiro è il risultato della pressione mediatica, di un’opinione pubblica che gli ha voluto diagnosticare una malattia a tutti i costi e non lo riteneva più all’altezza. Ripeto, non ritengo che la decisione sia stata consigliata dai medici. Si è trattato di una questione politica».
Come vive la vicenda da neuroscienziato?
«È stata caratterizzata purtroppo da una serie di distorsioni della realtà scientifica che il mondo delle neuroscienze non può accettare. Si sta infatti sdoganando nell’immaginario collettivo la totale sovrapposizione tra l’idea di vecchiaia e di inesorabile declino cognitivo patologico. Questo assioma è profondamente errato in base alle attuali conoscenze».