La Borsa punta sul risiko di Unicredit e Generali: la Consob accende un faro
di Daniela Polizzi
Se bastasse l’algebra, tutto sarebbe più chiaro. Numeri alla mano, infatti, l’uscita di Fondazione Crt dal capitale del Banco Bpm è ampiamente giustificabile. Socia storica della banca milanese di Piazza Meda, la fondazione piemontese ha negli anni accumulato in portafoglio l’equivalente dell’1,8 per cento del capitale della banca. Ora ha trasformato un potenziale guadagno in un ricco affare, incassando 140 milioni di euro, di cui una ottantina a titolo di plusvalenza. «Abbiamo quasi triplicato l’investimento», ha detto Fabrizio Palenzona, presidente di Fondazione Crt, che poi ha dirottato il ricavato della vendita verso le azioni di Assicurazioni Generali. Anche in casa del Leone di Trieste la Fondazione Crt è socia da tempo e ora arrotonda la sua partecipazione attorno al 2 per cento. Guardando allo swap azionario, il cambio tra le posizioni in Banco Bpm e in Generali ha una sua logica. L’1,8 per cento in Banco Bpm pesava infatti su un monte-dividendi di 848,5 milioni di euro a valere sul bilancio 2023. Vendendo, Fondazione Crt ha rinunciato a una cedola robusta, che ad aprile pagherà ai soci 0,56 euro per azione, con un rapporto dividend/yeld dell’11 per cento, uno dei più alti d’Europa, più elevato anche rispetto al Leone di Trieste (6%). Ma Generali agisce su altre dimensioni. In attesa della riunione del consiglio di amministrazione del prossimo 11 marzo, quando verranno esaminati i dati del 2023, il piano industriale in essere prescrive cedole per complessivi 5,2-5,6 miliardi di euro nel periodo 2022-2024. Lo scorso anno il monte dividendi toccò quota 1,79 miliardi, con un trend di crescita svincolato dalle tensioni del settore bancario. Quindi, visto dall’angolo della Fondazione Crt: realizzo un guadagno importante, sistemo il bilancio e investo in chi prospetticamente remunera meglio il mio capitale. Fin qui, dunque, tutto abbastanza chiaro.
di Daniela Polizzi
Ma la partita è più ampia e i giochi che a cui sta partecipando Fabrizio Palenzona sono difficili da decrittare, è complesso delineare la sottesa logica strategica. Probabilmente va anche considerato il fatto che la partecipazione in Banco Bpm poco concedeva alle dinamiche visioni del presidente di Fondazione Crt. Nel capitale del Banco sono infatti presenti i francesi del Crédit Agricole con il 9,18 per cento, i fondi Capital research con il 4,99, Norges Bank con il 3,05 ed Enasarco con il 3,01 per cento. Meglio Generali, dove le vivacità non sono mancate, anche di recente e dove i fronti contrapposti degli azionisti possono beneficiare delle acute visioni prospettiche a cui Palenzona sa dare corpo. Secondo alcuni, l’uscita dal capitale di Banco Bpm (Fondazione Crt controllava l’1,8%, apportato in un patto che complessivamente valeva circa l’8% del capitale della banca), ha per alcuni versi liberato le mani e per altri evitato, all’ente torinese, possibili imbarazzi futuri. Quali imbarazzi? Quelli che si sarebbero potuti generare qualora Unicredit decidesse di accendere i fari della propria attenzione proprio su Banco Bpm. Fondazione Crt era azionista dell’una e dell’altra parte. Ora non più. Palenzona aveva sostenuto la candidatura di Andrea Orcel ad amministratore delegato di Unicredit e recentemente elogiato pubblicamente l’operato di Giuseppe Castagna. Ma cosa sarebbe successo se…?
di Stefano Righi
Ovviamente questo non significa nulla in prospettiva, ma è indubbio che ci siano molte partite che si potrebbero aprire. Il Banco Bpm è idealmente il tassello mancante nel mosaico di Unicredit, lo si è detto più volte, anche se i vertici delle due parti non hanno mai evidenziato allineamenti strategici. In una situazione ampiamente in divenire, con le elezioni europee di inizio giugno che svolgono il ruolo di grancassa delle tensioni interne ai vari schieramenti politici, si aggiunge la partita delle poltrone. Il governo deve infatti ancora decidere gli assetti di molte sue controllate e l’uscita anticipata di Francesco Profumo dall’incarico di presidenza della Compagnia di San Paolo, una delle fondazioni di origine bancaria più ricche e potenti d’Italia, grande azionista di Intesa Sanpaolo, legittima ogni supposizione. Sia sul fronte pubblico che privato.
Il panorama insomma è sfuocato, con il governo italiano che potrebbe anche decidere di alienare almeno in parte la sua partecipazione nel Monte dei Paschi di Siena, oggi al 39 per cento, approfittando dei massimi di prezzo su cui l’azione si sta muovendo. Al riguardo, Banco Bpm ha ribadito categoricamente di non essere in alcun modo interessato ad operazioni straordinarie che abbiano come obiettivo il Monte dei Paschi di Siena. Non potrebbe essere diversamente. Secondo alcuni osservatori di mercato, infatti, il tempo per comperare la banca più antica del mondo è ormai alle spalle. C’è stato un momento in cui il governo, che all’epoca controllava il 64% del capitale di Mps, era disposto a incentivare l’acquisto a suon di miliardi di euro. Fino ad otto. Non se ne fece nulla. Con il piano industriale di Luigi Lovaglio, il medesimo che ha portato oggi Mps ad avvicinare i 4 euro per azione, con una capitalizzazione di Borsa di 4,6 miliardi, si presentò una seconda occasione di acquisto: l’aumento di capitale realizzato nel novembre del 2022 a 2 euro per azione, praticamente la metà di adesso. Con la sola eccezione del gruppo assicurativo francese Axa, storico partner industriale di Mps, che con una mosconata di poche settimane portò a casa diverse decine di milioni di euro, nessuna delle grandi istituzioni finanziarie presenti in Italia si peritò di acquistare azioni di Mps. Nessuna. Perché dunque farlo quindici mesi dopo, con le medesime azioni che costano il doppio?
di Andrea Rinaldi e Nicola Saldutti
Il 2024 si apre così con tensioni su più fronti. La logica aggregativa continua ad essere permeante, sebbene in tempi di vacche grasse non si trovino operatori disposti a rinunciare alle proprie sovranità. La regola vale anche nel comparto del risparmio gestito, dove nessuno va bene come Banca Mediolanum, capace di portare a casa oltre 800 milioni di utile netto nel 2023, con una crescita superiore al 60 per cento rispetto all’anno precedente. Tra i re di denari, recentemente è tornata a galla la suggestione di un accordo che porti l’altro gioiellino del settore, Banca Generali (326 milioni di utile netto, +53%), sotto l’ombrello di Mediobanca. L’accordo, vicino in passato, è molto più difficile adesso, anche perché Philippe Donnet, l’amministratore delegato delle Generali, che controllano il 50,17 per cento della banca, vede il suo mandato scadere fra un anno. Un timing che opportunamente sconsiglia operazioni straordinarie, visto soprattutto l’andamento eccellente di Banca Generali, che nei prossimi dodici mesi riconoscerà alla capogruppo cedole per complessivi 126 milioni di euro.
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