La doppia strategia di Putin: prima le bombe e poi la tregua. Così lo zar punta a farsi rieleggere da vincitore e a riprendere la guerra

Una tempesta di missili, la più devastante di sempre. Putin dimostra che il suo arsenale continua a crescere: ha sempre più armi e ancora più sofisticate, contro cui anche lo scudo delle batterie fornite dall’Occidente si dimostra inefficace.

Non c’era mai stato un attacco così massiccio, neppure nell’esordio di fuoco dell’invasione. Ben 158 tra missili e droni sono stati scagliati contemporaneamente contro tutte le città ucraine. Hanno distrutto fabbriche militari, depositi di munizioni e infrastrutture elettriche: in numerosi centri è tornato il blackout, lasciando al gelo la popolazione. Diversi degli ordigni intercettati dalla contraerea sono caduti tra le case: nella capitale un cruise in fiamme è esploso contro un condominio.

I russi vogliono terrorizzare la popolazione e logorare la volontà di proseguire la guerra. Cercano di usare il bombardamento per allargare le crepe nel Paese, che ha fallito la controffensiva, sente calare il sostegno occidentale e ha davanti la prospettiva di almeno un altro anno di battaglie. I piani per arruolare mezzo milione di soldati, da aggiungere al milione già in servizio, dividono le forze politiche e preoccupano la cittadinanza. La tensione tra governo e generali si fa ogni giorno più densa mentre Mosca getta ondate di fanti e tank sulle linee del Donbass: ormai i bollettini riportano solo ritirate.

È un momento critico per Kiev e Putin intende sfruttarlo. Il Cremlino lancia segnali diplomatici e si mostra disponibile a discutere un cessate il fuoco che congeli il fronte. Una tregua, non una pace, che gli permetta di presentarsi come vincitore. La sua propaganda ha già costruito una narrativa, in cui vantare la sconfitta della Nato mobilitata al fianco degli ucraini. Se il conflitto si fermasse ora, il nuovo Zar potrebbe sostenere di avere esteso la Russia fino al “confine sacro” tracciato dal fiume Dnipro. Sarebbe il viatico per la campagna elettorale, senza dovere mandare al massacro altri coscritti e proseguendo la ricostruzione del suo arsenale.

Serge Schmemann ha scritto sul New York Times che gli ucraini dovrebbero cogliere quest’opportunità: rinunciare ai territori occupati dai russi ed entrare nell’Unione europea, ottenendo una tutela di ferro per il futuro. I generali di Kiev sono convinti che i prossimi mesi porteranno solo rischi: non hanno più uomini e materiali per tentare un attacco, non sanno se le consegne di mezzi e munizioni proseguiranno. Lo stallo nei combattimenti potrebbe facilmente trasformarsi in disfatta, provocando il collasso nelle linee difensive. Ma non è detto che una tregua scongiurerebbe questa minaccia: dopo una pausa i russi potrebbero tornare alla carica, più agguerriti di ora.

Per il presidente Zelensky il dialogo con il Cremlino comporta un prezzo politico insostenibile, tale da compromettere la sua credibilità. E ci sono alcune nazioni - dai Paesi Baltici alla Gran Bretagna, dalla Polonia alla Norvegia – che sono disposte a tutto pur di non concedere fiato a Putin. Insomma, lo scacchiere è quanto mai frammentato. Su tutto pesa l’incognita del voto americano, con lo spettro di Trump e l’ipotesi che l’Ucraina perda il principale alleato: ed è questa la spinta maggiore che può condizionare l’esito del conflitto.

Quando oltre due milioni di uomini si affrontano in armi, però, le speculazioni razionali possono essere sconvolte in un attimo, aprendo scenari ancora più cupi. Lo si è rischiato pure oggi: a Varsavia è scattato l’allarme rosso per un missile russo avvistato dai radar. Sembra che poi sia finito sull’Ucraina: se fosse esploso in territorio Nato, sarebbe cambiato tutto.