Perché il cognome Kennedy fa ancora paura (a Biden e Trump)

Nessuno vuole un Kennedy tra i piedi in campagna elettorale

Non lo vuole Joe Biden, non lo vuole Donald Trump. Potenza di un cognome. 

Per adesso hanno vinto loro due, Biden e Trump, e quel cognome è cancellato. Robert Kennedy Jr non potrà partecipare al primo dibattito televisivo della campagna elettorale, quello organizzato dalla Cnn tra una settimana esatta, il 27 giugno.

L’incubo di avere un Kennedy come terzo incomodo è stato allontanato, almeno finora. Non si ripeterà quel che avvenne solo una volta nella storia dell’America moderna, nel 1992, quando i due candidati dei due partiti maggiori, George Bush padre e Bill Clinton, dovettero condividere il palcoscenico televisivo con l’indipendente Ross Perot. Quest’ultimo non aveva certo un cognome altisonante, né una storia prestigiosa e tragica come quella della dinastia Kennedy. Tuttavia la memoria dell’effetto-Perot rimane viva negli esperti di elezioni americane: quell’industriale favorevole al protezionismo (precursore di alcuni temi trumpiani) fu decisivo nel rubare voti al repubblicano Bush. Clinton divenne presidente grazie a Perot.

Questa volta non è così univoco l’effetto-Kennedy. L’unica cosa certa è che si tratta di un effetto poderoso. Da mesi Robert Junior viaggia fra il 10% e il 15% nei sondaggi, un livello ragguardevole e paragonabile proprio a quello di Perot. Robert Junior è figlio di quel Bob Kennedy che fu il «secondo martire» in famiglia: assassinato nel 1968 quando era vicino a conquistare la nomination democratica per la corsa alla Casa Bianca, in piena guerra del Vietnam. Bob era stato ministro della Giustizia di suo fratello John, il presidente assassinato cinque anni prima.

Robert Junior «nasce democratico», quindi. È stato un leader riconosciuto dell’ambientalismo americano. Quest’anno aveva provato a sfidare Biden per la nomination del partito, ma avendo subito un ostracismo totale ha finito per candidarsi da indipendente. Strada difficile per definizione. 

Le regole del gioco in America sono fortemente bipolari, le candidature indipendenti devono superare ostacoli notevoli. La Cnn ha avuto buon gioco a escludere Kennedy invocando appunto il regolamento: bisogna raggiungere la soglia del 15% in almeno quattro sondaggi nazionali, lui ce l’ha fatta solo in tre (incluso quello della stessa Cnn), non basta. L’altra barriera è il requisito di essere stato ammesso sulle schede elettorali di Stati Usa che rappresentino almeno 270 voti nel collegio elettorale. Kennedy finora ce l’ha fatta solo in sei Stati (California, Michigan, Delaware, Oklahoma, Utah, Hawaii). 

Per impedirgli di essere ammesso nella maggioranza degli Stati si è prodigato con ricorsi giudiziari e contestazioni l’apparato del partito democratico. La squadra Biden ha fatto di tutto per sabotare la campagna di Kennedy.

Robert Junior in effetti rappresenta un pericolo sulla strada della rielezione dell’attuale presidente. Venendo dalla sinistra radicale Kennedy può portare via voti soprattutto fra i giovani. Ma il suo cognome ha una presa indiscutibile anche su altre generazioni e fasce dell’elettorato. Contesta Biden quasi sempre «da sinistra» anche sulla politica estera, Ucraina e Gaza. Però è in grado di sottrarre consensi anche a Trump perché oggi è Kennedy il vero «outsider» rispetto all’ex presidente repubblicano; fa una campagna anti-establishment; ed ha preso posizioni anti-vax che piacciono alla destra estrema. A 70 anni, per quanto sembri assurdo, lui in tv sarebbe apparso «giovane»

La famiglia Kennedy, con l’esclusione di Robert Jr, rimane legata al partito democratico e molti suoi esponenti hanno condannato la discesa in campo del «ribelle». La storia di questa dinastia continua ad avere un peso enorme in America. Si capisce perché.

C’è un prima e un dopo la morte di John Fitzgerald Kennedy, assassinato a Dallas il 22 novembre 1963. Quella data è diventata una sorta di spartiacque simbolico, fra una presunta età dell’innocenza e un periodo successivo segnato da violenze di ogni genere. In quei giorni le facce della vedova Jackie e il suo «vestito rosa» insanguinato, del neopresidente Lyndon Johnson, dell’assassino Lee Oswald, del suo giustiziere Jack Ruby, dominavano i telegiornali in bianco e nero, le conversazioni in famiglia (non solo in America, nel mondo intero). E il mito di JFK spiccava il volo.

La morte ha creato una leggenda, la divaricazione tra l’icona e la realtà è enorme. Kennedy non fu un grande presidente. L’unica attenuante è che il destino non gli lasciò il tempo per diventarlo. I mille giorni della sua presidenza furono segnati da errori e delusioni, soprattutto in politica estera. La disastrosa invasione della Baia dei Porci nell’aprile 1961, maldestro tentativo della Cia di rovesciare il regime di Fidel Castro a Cuba. Il primo testa a testa con il leader sovietico Nikita Kruscev nel giugno di quell’anno, a cui JFK arrivò impreparato. L’inizio dell’impegno militare americano in Vietnam. Quei passi falsi erano in contrasto con un’immagine di efficienza manageriale che la sua Casa Bianca voleva irradiare: il presidente si circondava di quelli che oggi chiamiamo tecnocrati, allora venivano soprannominati «teste d’uovo» o the best and brightest (i migliori e più brillanti). 

A riscattare il bilancio in politica estera c’è la gestione saggia della crisi dei missili di Cuba nel 1962: JFK tenne duro di fronte all’Unione sovietica per impedire l’installazione di missili nucleari sull’isola, ma mostrò anche flessibilità e senso di responsabilità. Quello rimane il periodo in cui il mondo fu più vicino ad una guerra nucleare.

Sul terreno domestico JFK fu assistito dal fratello Robert nel dialogare con il movimento per i diritti civili guidato da Martin Luther King, fautore della disobbedienza civile per cancellare il segregazionismo negli Stati del Sud. Il presidente era favorevole ai diritti civili ma procedeva con cautela per non alienarsi l’elettorato bianco. Le riforme più coraggiose, sia in campo razziale sia sul terreno sociale, furono dovute paradossalmente al suo successore che era un uomo del Sud. Il texano Johnson era più a sinistra dei Kennedy, anche se la sua immagine venne distrutta in Vietnam.

Per quale ragione JFK giganteggia nella storia? Prima ancora che il mito fosse consacrato nel sangue, lui aveva conquistato l’America e il mondo con la sua immagine. Giovane, bello, sexy, ricco, segnava l’avvento di una nuova generazione al potere dopo l’anziano e grigio Dwight Eisenhower. Era telegenico e la leggenda vuole che vinse l’elezione del 1960 perché trionfò nel primo duello televisivo della storia, contro Richard Nixon (non ci sono prove, fu decisivo invece il sindaco di Chicago che fece «votare» per JFK migliaia di elettori defunti). 

Lo aiutava la figura di Jackie, prima First Lady glamour della storia. Come oratore era carismatico e aiutato da formidabili ghostwriter. Memorabili le citazioni: «Non chiedere cosa la tua nazione può fare per te, chiediti cosa tu puoi fare per la tua nazione». La Nuova Frontiera, il suo slogan, divenne un simbolo dei primi anni Sessanta pieni di fiducia nel progresso. Il lato oscuro di JFK lo avremmo scoperto dopo. Le ferite sofferte nella seconda guerra mondiale lo rendevano dipendente da potenti farmaci (gli elettori erano all’oscuro). La vita sessuale disordinata, inclusa una relazione con la star Marilyn Monroe, lo avrebbe reso fragile e ricattabile in epoche successive segnate da maggiore trasparenza e altri standard etici.

Con l’uccisione del fratello Bob nel 1968, attorno ai Kennedy si è consolidata la fama di una dinastia repubblicana unica nella statura e nelle tragedie. Robert Junior vive in parte di rendita su questa storia tragica e gloriosa.

L’America di JFK era una nazione irriconoscibile rispetto a quella di oggi. Potremmo definirla socialdemocratica, perché ereditava da Franklin Roosevelt un Welfare generoso, sindacati forti, aliquote fiscali scandinave. Era una società meno multietnica; i forti controlli sull’immigrazione garantivano gli alti salari operai. Aveva un’autostima alle stelle, questo la rendeva capace di nutrire grandi progetti per il futuro: come la conquista dello spazio, le cui ricadute benefiche si sarebbero estese in molti settori. È comprensibile la nostalgia.

20 giugno 2024, 16:36 - modifica il 20 giugno 2024 | 16:37

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