Meloni, Salvini, Tajani: le tensioni nel governo possono bloccare le riforme
L'esecutivo minimizza, ma dopo il voto europeo a Ursula von der Leyen si è aperto un fronte
La domanda che aleggia nella maggioranza non riguarda solo la possibilità di fare andare d’accordo Lega e Forza Italia, a cominciare dalla politica estera: anche perché sul sostegno all’Ucraina contro l’aggressione russa la premier Giorgia Meloni finora non ha mai ceduto, come FI. Il fronte ufficialmente non aperto, ma che lo è e potrebbe diventarlo ancora di più, riguarda le riforme istituzionali. C’è da chiedersi se possano sopravvivere a uno scontro patologico tra i partiti della maggioranza.
Fino alle elezioni europee di giugno, il tema non si poneva, anzi. In nome dell’esigenza di mostrarsi compatti alle urne, Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani presentavano ciascuno la «sua» riforma come complementare alle altre. Dunque, il premierato voluto da Palazzo Chigi avrebbe bilanciato virtuosamente l’Autonomia differenziata delle regioni imposta dalla Lega e indigesta agli altri. E la riforma della giustizia di berlusconiana memoria avrebbe marciato per tacitare FI e con il «placet» di tutti; e a tappe forzate. Ma il dopo voto mostra uno scenario diverso.
Il partito del vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani, membro del Ppe, è considerato il vero vincitore della partita delle nomine a Bruxelles. E addita la marginalità della Lega, aderente a un gruppo di estrema destra filorusso, i Patrioti per l’Europa, fuori da ogni combinazione. E la premier Meloni, dopo l’inopinato voto contro la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, è costretta a protestare per la nomina dello spagnolo Javier Colomina come rappresentante speciale della Nato per il Mediterraneo: uno sgarbo all’Italia che ha spiazzato e irritato lo stesso Tajani. Il fatto che la Commissione sia figlia di un’intesa che va dal Ppe ai Verdi viene ritenuto dai leghisti una colpa da rinfacciare a FI. E anche nel Pd, l’alleanza per eleggere von der Leyen crea malumori a sinistra. Ma per paradosso, il «no» di Meloni ha reso la posizione della segretaria Elly Schlein meno scomoda; altrimenti avrebbe dovuto giustificare il suo voto a favore.
Quanto al Ppe, la sua scelta conferma una centralità che si basa sui consensi ottenuti e sui principi europeisti e di politica estera. Il tema è se la scomposizione della maggioranza a livello continentale avrà riflessi su riforme che appaiono divisive sia per il «no» pregiudiziale delle opposizioni; sia per una tentazione referendaria di chi le propone e di chi non le vuole, destinata a dividere il Paese e a mettere in tensione la coalizione più degli avversari. Ministri di Lega e FdI giurano che il governo va a gonfie vele, e che durerà. È possibile. Resta da capire come riuscirà a recuperare una coesione che emerge con crescente intermittenza.
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