
Che cosa ha fatto per noi l’Europa: il Green Deal e quella rivoluzione a rischio per una possibile svolta a destra
STRASBURGO – Il voto di martedì scorso al Parlamento europeo sul “ripristino della Natura” è solo uno degli ultimi passaggi del Green Deal, almeno per ora. Ma che cosa è esattamente questo grande accordo sul futuro verde dell’Ue? E perché oggi, a pochi mesi dalle elezioni europee del prossimo giugno, è sempre più criticato, in piazza e nei palazzi del potere?

Che cosa è il Green Deal
La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen lanciò il Green Deal pochi giorni dopo essere entrata in carica, e lo definì allora “il momento sbarco-sulla-Luna” dell’Unione Europea. Era l’11 dicembre del 2019, un’epoca in cui – prima del Covid, dell’invasione russa dell’Ucraina, dell’aumento dei costi dell’energia e dell’inflazione – anche grazie ai Fridays for Future di Greta Thunberg la lotta al cambiamento climatico era altissima nell’agenda dei leader del continente. Un mese prima il Parlamento europeo aveva dichiarato l’emergenza climatica chiedendo alla Commissione di assicurare che tutte le proposte fossero in linea con l'obiettivo di limitare il riscaldamento globale al di sotto di 1,5° C e di ridurre significativamente le emissioni di gas a effetto serra, in linea con gli accordi di Parigi.

“Ora è tempo di agire”, disse von der Leyen. E nacque il Green Deal, con nel nome un riferimento al grande piano di investimenti pubblici con cui il presidente Franklin Delano Roosevelt trasformò gli Stati Uniti negli anni Trenta. Il 24 giugno del 2021 l’Europarlamento ha approvato la legge europea sul clima, che rende giuridicamente vincolante l'obiettivo di ridurre le emissioni del 55% entro il 2030 e raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Un impegno ambizioso che assegna all’Ue la leadership nella lotta globale contro il cambiamento climatico. Una battaglia in nome dell’ambiente e dei cittadini, visto che le conseguenze del Green Deal saranno aria, acqua e suolo più puliti, bollette energetiche più economiche, il restauro delle case, il miglioramento dei trasporti pubblici e l’aumento di stazioni di ricarica per le automobili elettriche, la diminuzione dei rifiuti, cibo più sano e un miglioramento della salute per le generazioni del presente e del futuro.

Uno dei punti cardine del piano è il pacchetto di norme Fit for 55 (“Pronti per il 55%”), una proposta della Commissione che è stata approvata in via definitiva da Strasburgo l’11 luglio 2023 e prevede che i Paesi dell’Ue dovranno garantire collettivamente una riduzione del consumo energetico di almeno l'11,7 % entro il 2030, con particolare attenzione agli edifici pubblici. Il pacchetto impone anche che almeno il 32% del consumo energetico provenga da fonti energetiche rinnovabili entro il 2030. Sempre nell’ambito del Green Deal, l’Ue ha anche detto stop ai motori termici alimentati a benzina e diesel dal 2035, ha riformato il mercato del carbone, e ha imposto una carbon tax alle frontiere e un divieto di import per i prodotti che causano deforestazione.
Una rivoluzione che non è gratis
La rivoluzione del Green Deal interessa vari settori della società. Ovviamente anche l’economia, dove verrà promossa una circolarità dei processi produttivi, sarà favorito un consumo sostenibile e ridotta la quantità di rifiuti (da questo ultimo punto di vista, tra le tante misure approvate c’è il caricabatterie universale). Ma gli imprenditori del continente, BusinessEurope, lamentano che, se non inietterà denaro, l’Ue non potrà reggere il confronto con la competizione della Cina (leader globale dell’industria fotovoltaica) o degli Stati Uniti, dove l’Inflation Reduction Act ha previsto ben 340 miliardi di dollari di aiuti per le tecnologie verdi.

Non tutti i cittadini potrebbero essere poi nelle condizioni di essere pronti alla svolta. Per questo il Parlamento ha approvato l'attuazione del Fondo sociale per il clima per garantire un'equa transizione energetica aiutando le famiglie vulnerabili, le piccole imprese e gli utenti dei trasporti, quanti tecnicamente sono cioè toccati dalla “povertà energetica” e da quella “da mobilità”. Tra le misure incluse, ci sono la riduzione delle tasse e dei canoni energetici per combattere l’aumento dei prezzi del trasporto su strada e del combustibile per riscaldamento, incentivi per la ristrutturazione e il passaggio a fonti rinnovabili negli edifici, incentivi per il passaggio dal trasporto privato a quello pubblico, oltre al car sharing e alle biciclette, e il sostegno allo sviluppo del mercato dell’usato per i veicoli elettrici.

La protesta dei trattori
Nell’ultimo anno sono dunque aumentate le voci critiche verso il Green Deal. In prima linea ci sono gli agricoltori, in quella che è definita la protesta dei trattori, ormai presenza regolare delle manifestazioni nelle strade delle grandi capitali e soprattutto di Bruxelles.

Il settore agricolo dell’Ue è l’unico al mondo ad aver ridotto le emissioni di gas serra, con un calo del 20% rispetto ai livelli del 1990. Rimane tuttavia responsabile di circa il 10% delle emissioni, di cui il 70% sono causate dall’allevamento.

Gli agricoltori ritengono però che, già indeboliti dalla crisi energetica e dall’apertura del mercato interno al grano ucraino, con il Green Deal si chieda loro troppo, anche in termini di nuova burocrazia.
L’estrema destra soffia sul fuoco
Nei sondaggi la rivoluzione verde ha perso consenso, e a soffiare sul fuoco sono soprattutto la destra e l’estrema destra. Nei Paesi Bassi i trattori hanno trovato voce in un vero partito, quello dei contadini (Bbb), che nella scorsa primavera superò il 20 per cento dei sondaggi per poi ottenere il 4,5 alle elezioni di novembre. Nello stesso Paese è climascettico il vincitore di quel voto, il sovranista Geert Wilders, come anche i Democratici svedesi e i Veri finlandesi, mentre un’estrema destra fortemente anti-ambientalista è sia quella tedesca di Afd sia quella francese del Rassemblement National di Marine Le Pen, che vuole esplicitamente “abolire il Green Deal”. E per entrambe si prevedono risultati rotondi alle elezioni.

E intanto anche i governi chiedono di tirare il freno al Green Deal: Polonia e Ungheria sono in prima fila, ma a maggio anche Emmanuel Macron, nella Francia dei gilet gialli, ha chiesto una “pausa” nelle regolamentazioni, così come hanno fatto ufficialmente il 29 giugno i leader di 8 Paesi di centrodestra (Cipro, Lettonia, Svezia, Grecia, Austria, Finlandia, Croazia e Irlanda). E dalla Germania alla Svezia le riforme ambientaliste vengono fermate.
Nelle mani di Ursula e del Ppe
Di fronte all’avanzata dell’estrema destra, il Partito popolare europeo è tentato, almeno in parte, dall’alleanza. Se alle elezioni di giugno dovesse in particolare registrare un exploit l’Ecr – il gruppo dei Conservatori e dei Riformisti di cui fanno parte tra gli altri Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni ma anche formazioni dichiaratamente più estreme come i polacchi di Diritto e giustizia, gli spagnoli di Vox, i Democratici svedesi, i Veri finlandesi, la Nuova alleanza fiamminga – allora il Ppe potrebbe ipotizzare di governare a Strasburgo con il loro sostegno, totale o parziale, soprattutto se diventassero la terza forza dell’aula (attualmente sono quinti dietro i socialisti, i liberali di Renew e i Verdi – questi ultimi due partiti sono oggi in difficoltà nei sondaggi – e anche dietro l’altra estrema destra, Identità e Democrazia, guidata dalla Lega di Matteo Salvini e dal Rassemblement National di Marine Le Pen e con forze pericolosamente nostalgiche come l’Afd tedesca e l’FPÖ austriaca).

La candidata del Ppe alla guida della Commissione europea, la presidente uscente Ursula von der Leyen, rinnegherà l’alleanza con cui ha governato in questi cinque anni – quella con socialisti e liberali – e aprirà all’estrema destra e ai conservatori, magari con il sostegno di parte di Renew? Sull’altare di questa intesa finirebbe certamente il Green Deal, che verrebbe quantomeno annacquato. Nel suo nuovo programma il Ppe ha già avvertito che la protezione dell’ambiente non deve andare contro lo sviluppo economico (il contrario di quanto ci dice il capodelegazione del Pd a Strasburgo Brando Benifei: “Se si tutela l’ambiente si tutela l’economia”).
Nelle scorse settimane von der Leyen ha mandato dei messaggi, lasciando intendere di aver capito che il clima è cambiato. Prima ha respinto la proposta che mirava a dimezzare l’uso dei pesticidi, che però era già stata bloccata da Parlamento e Consiglio. Poi il 6 febbraio ha annunciato che l’Ue si pone come obiettivo di ridurre entro il 2040 le emissioni di Co2 del 90 per cento rispetto al 1990. Un obiettivo anch’esso ambizioso ma vago, tanto più che nel testo non si fa più riferimento alla soglia di riduzione delle emissioni per il settore agricolo. In più ha rinunciato a un nuovo testo sul benessere animale, mentre a novembre la Commissione ha autorizzato per altri dieci anni il glifosato.
Ma sono discorsi prematuri. Tutto dipenderà dalle elezioni del 6-9 giugno. E a decidere, prima di tutto, saranno gli elettori.