Ue, la lezione di Draghi

I 500 miliardi all’anno di investimenti per la transizione verde e digitale invocati da Draghi all’Ecofin di Gand rischiano di non essere sufficienti senza un’accelerazione dell’integrazione dei mercati europei. La competitività è una parola d’ordine senza tempo, ma la competitività dei nostri giorni è cosa ben diversa da quella del mondo pre-crisi finanziaria, ossia di quindici anni fa.

È cambiato il quadro geopolitico. Come ha ricordato Draghi, l’America ci difende meno di prima, la Russia non ci fornisce più l’energia e la Cina è oramai un concorrente più che un grande mercato. L’epoca della frammentazione geografica pone sfide nuove rispetto al mondo della iper globalizzazione.

Ma la novità non è solo geopolitica. O meglio, non è solo a causa della geopolitica che il Pil europeo è oggi il 65% di quello americano, mentre nel 2013 era il 91%. Il problema è che l’Europa, nell’altalena tra sovranità nazionale e regole comunitarie, fatica a darsi una strategia comune di vera integrazione economica, come ricordato da Claudio Tito.

Non abbiamo completato l’Unione bancaria, il mercato dei capitali è tutt’altro che unico, la difesa comune è si e no un progetto, manca un’infrastruttura e un mercato elettrico unificato e non solo. E anche quando esiste un piano con obiettivi e risorse comuni, come il Green Deal, la realizzazione è lasciata all’arbitrio degli Stati nazionali.

La questione è rilevante perché dalla crisi finanziaria in avanti, e poi con l’accelerazione del cambiamento climatico e dell’innovazione tecnologica, è mutato radicalmente il rapporto tra Stato e Mercato a favore del primo.

Lo sconquasso della finanza e delle banche del 2009 o i nuovi grandi temi di privacy, sicurezza, concorrenza posti dalla diffusione del digitale e dalle piattaforme tecnologiche e infine, ovviamente, l’ambiente, hanno imposto nuovi sistemi di regole e controlli pubblici.

D’altra parte, la transizione energetica e digitale e l’obiettivo di un’Europa più sicura, e che non si allontani troppo dalla frontiera tecnologica, richiedono investimenti colossali che i mercati non hanno incentivo a fare nell’immediato e gli Stati da soli non hanno sufficienti risorse.

Gli investimenti pubblici, direttamente orientati al mercato, anche se insufficienti, sono cruciali in un periodo di lunga transizione tecnologica in cui molto di quello che dobbiamo fare subito (ad esempio per la sostenibilità ambientale) non è compatibile con l’equilibrio di bilancio delle imprese.

In questo nuovo mondo, in cui la politica industriale è in cima all’agenda dopo decenni in cui era bollata come inutile distorsione dei mercati, la lentezza nel processo di integrazione in Europa è la principale ragione della nostra crescente distanza dalle frontiere americane.

Ovviamente è questione di dimensioni: i mercati dei singoli Stati sono troppo piccoli per giustificare gli investimenti necessari alla transizione.

Poi è questione di efficienza. Con l’integrazione si potrebbe passare (e questo è forse il difficile punto politico) dalla difesa delle prerogative nazionali a una prospettiva di sfruttamento dei vantaggi comparati, ossia si fanno le cose dove è più efficiente farlo.

Una rete elettrica unica permetterebbe a tutti gli europei di sfruttare il sole della Sicilia e il vento della Danimarca. Un mercato dei capitali unico permette ai risparmi europei di sfruttare le opportunità di investimento nell’Unione.

Inoltre è questione di evitare inutili duplicazioni. Vedi la difesa. La spesa aggregata europea è inferiore a quella americana, ma anche con molte duplicazioni di programmi e investimenti nazionali.

E infine è questione di equità. Il “liberi tutti” sugli aiuti di Stato avvantaggia gli Stati con tasche profonde. E qui non è solo questione di mercati integrati ma anche di risorse fiscali comuni.

Insomma, senza una maggiore integrazione dei mercati europei i 500 miliardi l’anno di investimento invocati da Draghi rischiano di essere insufficienti o mal spesi e non potranno aiutarci a riacciuffare l’America.

barba@unimi.it