Felpa e telefonate, le 48 ore perfette di Kamala Harris: «Così si è presa il partito e la nomination»
Nelle prime dieci ore dopo il ritiro di Biden, la vicepresidente avrebbe effettuato un centinaio di chiamate: gli ex presidenti democratici, i suoi potenziali rivali per la nomination, i leader del partito in Congresso. Così si è assicurata il sostegno del partito. E dei delegati
«Sono state 48 ore perfette», ha sintetizzato Robby Mook, manager della campagna elettorale di Hillary Clinton nel 2016, per spiegare la rapidità con cui Kamala Harris, dopo il ritiro di Joe Biden, ha saputo unire il partito assicurandosi la nomination democratica. L’operazione «palma da cocco», come è stata ribattezzata sui social, è cominciata in una domenica mattina di mezza estate, quando la vicepresidente ha convocato senza preavviso i suoi più stretti consiglieri al Naval Observatory, la residenza ufficiale: pochi minuti prima, Biden la aveva informata che si sarebbe ritirato dalle elezioni presidenziali.
Insieme ai suoi uomini, allora, ha cominciato a studiare le prime mosse. Poi, non appena il presidente ha comunicato al suo staff quello che stava per annunciare al mondo, Harris ha lanciato la sua campagna elettorale giocando sul tempo: in felpa e scarpe da ginnastica, hanno raccontato alcune delle persone presenti al New York Times, la vicepresidente ha cominciato a telefonare ai più influenti leader del partito democratico. «Non avrei fatto passare questa giornata», diceva Harris, «senza farmi sentire da te». È andata avanti così fino a notte fonda, ordinando pizza con le acciughe e insalata.
Nelle prime dieci ore, la vicepresidente avrebbe effettuato un centinaio di telefonate, dimostrando il vigore che era mancato a Biden dopo il dibattito, quando aveva fatto giusto una ventina di telefonate in 10 giorni. Harris ha chiamato gli ex presidenti democratici, partendo da Bill Clinton che l'ha subito sostenuta e da Barack Obama che dovrebbe a breve dare il suo appoggio ufficiale dopo averglielo garantito in privato, i suoi potenziali rivali per la nomination – a cominciare dai governatori Gretchen Whitmer del Michigan, J.B. Pritzker dell’Illinois, Josh Shapiro della Pennsylvania – e i leader del partito in Congresso, il senatore Bernie Sanders, i vertici dei vari caucus parlamentari e tutte le pedine più influenti del mondo progressista.
Nel frattempo, il suo team si è unito a quello che già stava lavorando per la rielezione di Biden, mettendo in piedi l’ala operativa della campagna e assicurandosi il sostegno dei delegati che avrebbero dovuto confermarne la nomination. In 48 ore, Kamala Harris ha fugato ogni dubbio su chi avrebbe preso il posto di Biden, si è assicurata il sostegno dei possibili sfidanti, ha ottenuto la maggioranza dei delegati e ricevuto 126 milioni di dollari in donazioni, dando un nuovo slancio alla campagna presidenziale e mandando in crisi il fronte repubblicano.
Lo spazio per sfidare la sua candidatura è durato giusto 27 minuti: il tempo passato fra la lettera d’addio pubblicata a Biden su X e il post successivo, in cui annunciava il suo sostegno a Harris. Con quelle parole, il presidente le ha spianato la strada non solo dal punto di vista politico, ma anche da quello legale: le ha permesso così di mettere le mani sui fondi elettorali – i 96 milioni presenti in cassa – e alle 16.48 il suo nome era già sui documenti ufficiali.
Martedì mattina, quando non erano ancora passate 48 ore dall'annuncio di Biden, Harris si è assicurata anche l'appoggio del senatore Chuck Schumer e del deputato Hakeem Jeffries, leader delle rispettive Camere, che hanno chiuso la partita. «È stata una cascata ben organizzata», ha spiegato al Times Howard Dean, ex presidente del partito democratico, a sua volta candidato alla Casa Bianca nel 2004. «Devo confessare che mi ha sorpreso per la velocità».