Biden, lo Stato dell’Unione e il porto temporaneo per Gaza AmericaCina dell’8 marzo

America-Cina Il Punto | La newsletter del Corriere della Sera
testata
Venerdì 8 marzo 2024
Biden all’attacco nello Stato dell’Unione
editorialista di Andrea Marinelli

Questa notte Joe Biden ha pronunciato il suo terzo discorso sullo Stato dell’Unione, quello che molti osservatori hanno definito il più grintoso intervento della sua decennale carriera (sopra, nella foto Afp di Roberto Schmidt, mentre esce dalla Casa Bianca per andare in Congresso). Parlando alle due Camere riunite in seduta comune, il presidente degli Stati Uniti ha attaccato Trump senza mai nominarlo, gli ha rinfacciato lo stop agli aiuti all’Ucraina e l’accordo bipartisan per mettere in sicurezza il confine boicottato da suoi uomini in Congresso, lo ha definito una minaccia per la democrazia. «Non puoi amare il tuo Paese solo quando vinci», ha affermato ricordando l’assalto del 6 gennaio.

Oggi su AmericaCina Massimo Gaggi ci racconta il discorso di Biden; Davide Frattini ci aggiorna sulla situazione a Gaza con la decisione — sempre del presidente americano — di allestire un porto temporaneo per gestire gli aiuti umanitari; Guido Olimpio mette insieme i numeri degli Houthi; Lorenzo Cremonesi ci riporta l’allarme di Zelensky per i Paesi della Nato (dove ieri, infine, è entrata anche la Svezia, il 32esimo membro); Guido Santevecchi ci illustra l’accordo fra il governo canadese e uno dei «Due Michael», con tutto quello che c’è dietro.

Abbiamo poi le novità sulla Legge di sicurezza di Hong Kong; il viaggio americano di Orbán, che ieri ha visto Bannon e oggi incontrerà Trump; i due rapporti sulle stragi americane; il quinto matrimonio di Rupert Murdoch, che fra tre giorni compie 93 anni e fra tre mesi si sposerà con Elena Zukhova.

Buona lettura.

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1. Stato dell’Unione, il più grintoso discorso mai pronunciato da Biden
editorialista
di Massimo Gaggi
da New York

imageJoe Biden, 81, durante il suo terzo discorso sullo Stato dell’Unione: alle se spalle la vicepresidente Kamala Harris e lo speaker della Camera Mike Johnson (foto Afp/Saul Loeb)

Sessantotto minuti di requisitoria serrata per denunciare minacce «interne ed esterne» alla democrazia e alle libertà dei cittadini americani. Un discorso definito dai media americani il più grintoso mai pronunciato da Joe Biden. Senza mai nominare Donald Trump per nome, il presidente ha attaccato per ben 13 volte quello che ha chiamato «il mio predecessore» su tutto: lo stop agli aiuti all’Ucraina, l’accordo bipartisan sull’immigrazione che proprio l’ex presidente ha fatto colare a picco, l’aumento del debito pubblico cresciuto soprattutto per via di duemila miliardi di sgravi fiscali da lui concessi soprattutto ai ricchi. E, poi, l’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021 e il tentativo di Trump di sovvertire l’esito del voto. Con l’accusa più netta: «Su quelle elezioni il mio predecessore ha sepolto la verità». E, ancora: «Non puoi amare il tuo Paese solo quando vinci».

Non era mai successo che in un discorso sullo Stato dell’Unione un presidente attaccasse con tanta insistenza un suo avversario politico. Ma gli analisti non sono stati colti di sorpresa: è ormai iniziato, dopo il Supermartedì delle primarie, un testa a testa tra il presidente e Trump che durerà fino al voto del 5 novembre. Tutti, quindi, si aspettavano da Biden un discorso molto duro. Invocato anche dal suo partito che gli ha chiesto di dimostrare, davanti a un’opinione pubblica che deve in lui un vecchio presidente indebolito e vulnerabile, di avere ancora riserve insospettate di energia da spendere.

Con alle sue spalle la vicepresidente Kamala Harris che si alzava di continuo per applaudirlo e lo speaker repubblicano della Camera, Mike Johnson, che faticava a mascherare il suo disagio rimanendo impassibile durante i passaggi-chiave del discorso o applaudendo in modo timido, guardingo, tenendo le mani quasi sotto il tavolo, Biden ha preso più volte di petto anche i repubblicani del Congresso: li ha provocati sulle tasse, sull’aborto, sull’immigrazione.

imageI senatori democratici Elizabeth Warren del Massachusetts e Sheldon Whitehouse del Rhode Island applaudono Biden (foto Epa/Shawn Thew)

E quando, rompendo la regola del decoro imposta da Johnson, qualche parlamentare repubblicano ha lanciato invettive contro il presidente, Biden è stato pronto a raccogliere e a polemizzare: sullo stop agli aiuti a Kiev («chi pensa che Putin si fermerà all’Ucraina si illude»), sulle tasse («volete regalare altri duemila miliardi ai ricchi?») e, soprattutto, sull’immigrazione. A Marjorie Taylor Greene, pasionaria di Trump che si è presentata in Parlamento vestita di rosso fiammante e gli ha urlato contro il nome di Laken Riley, una ragazza uccisa da un clandestino venezuelano, Biden ha risposto prontamente facendo le sue condoglianze alla famiglia da padre che ha perso figli giovani, ma ha anche rifiutato di criminalizzare tutti gli immigrati.

imageMarjorie Taylor Greene, deputata trumpiana della Georgia (foto Epa/Shawn Thew)

Di Europa ha parlato solo a proposito della guerra in Ucraina: democrazie sotto attacco, stigmatizzato il rifiuto dei repubblicani di dare via libera al pacchetto di aiuti militari a Kiev e di nuovo l’attacco a Trump per l’atteggiamento nei confronti della Russia: «Siamo passati dal “Gorbaciov abbatti quel muro” di Reagan al “Putin fai quello che vuoi dei Paesi Nato” del mio predecessore». E poi il contenimento della Cina non fornendole più le tecnologie più avanzate e strategiche degli Stati Uniti, mentre Trump, quando era alla Casa Bianca, ha fatto la faccia feroce con Pechino, ma non ha mai adottato misure efficaci.

E il rebus mediorientale: riconoscimento del diritto di Israele di dare la caccia ai terroristi di Hamas che hanno fatto strage il 7 ottobre, ma anche l’obbligo per lo Stato ebraico di tutelare le vite dei civili palestinesi, inaccettabili i nuovi massacri e le sofferenze inflitte a gente inerme. Con l’annuncio della costruzione di un porto prefabbricato a Gaza per far affluire più rapidamente, su navi di grandi dimensioni, gli aiuti alla popolazione civile.

Ma, avendo puntato su toni da campagna elettorale, Biden ha parlato soprattutto di aborto, diritti delle donne, economia. E lo ha fatto con accenti populisti: più tasse su imprese e miliardari, sgravi per i cittadini comuni, rilancio del ceto medio, tagli dei prezzi dei farmaci, no alla riduzione dell’assistenza sanitaria per gli anziani e all’aumento della loro età pensionabile.

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2. L’annuncio americano: «Un porto a Gaza per gli aiuti umanitari»
editorialista
di Davide Frattini
corrispondente da Gerusalemme

imageGli aiuti umanitari paracadutati sul nord della Striscia di Gaza (foto Ap/Leo Correa)

Parla alla cerimonia dei cadetti che diventano ufficiali. Il piano per i futuri comandanti dell’esercito resta quello del passato, ripetuto come uno slogan in questi cinque mesi di guerra: «Vittoria totale». Benjamin Netanyahu ribadisce che le pressioni esterne non lo fermeranno: «Rafah è l’ultima roccaforte di Hamas, chi ci dice di non estendere le operazioni in quelle aree ci chiede di perdere il conflitto. Non succederà». Le pressioni esterne sono quelle dell’alleato più importante. Il premier rilancia una linea già espressa di opposizione al presidente Joe Biden, ieri però sembra rispondere anche alle notizie rivelate da David Ignatius, editorialista ben informato del Washington Post.

Scrive che la Casa Bianca, ormai frustrata dalla volontà del primo ministro di tirare dritto, potrebbe decidere di bloccare le forniture militari a Israele, se venissero utilizzate nell’offensiva contro la cittadina al confine con l’Egitto dov’è ammassato oltre un milione e mezzo di palestinesi, gli sfollati che hanno già dovuto lasciare le case al nord della Striscia. I chilometri quadrati in cui poter fuggire restano ormai pochi. Ignatius paragona la mossa a quella attuata nel 1975 da Gerald Ford e orchestrata da Henry Kissinger, allora segretario di Stato, per spingere gli israeliani a ritirarsi dal Sinai egiziano dopo la guerra di Yom Kippur di due anni prima.

Una rivalutazione delle relazioni attraverso le forniture di bombe. Anche se fino ad ora, al giorno 153 della guerra, l’amministrazione Biden ha approvato un centinaio di trasferimenti — calcola il Wall Street Journal — e il Congresso è stato informato solo per un paio di spedizioni tra missili e pezzi d’artiglieria. «La maggior parte delle spedizioni è stata decisa attraverso meccanismi meno pubblici, comunque legali». Questo flusso potrebbe essere chiuso. Gli americani pretendono che il governo presenti un piano per l’evacuazione dei civili prima di ordinare l’incursione, i palestinesi uccisi sono oltre 30 mila e le Nazioni Unite avvertono che la popolazione è sull’orlo della carestia.

La Casa Bianca nei giorni scorsi ha invitato a Washington il rivale di Netanyahu: i consiglieri del presidente sono rimasti scioccati dal livello di impreparazione che anche Benny Gantz — l’ex capo di stato maggiore che ha lasciato l’opposizione per entrare nel consiglio di guerra ristretto — ha dimostrato nel presentare una strategia perché nella Striscia entrino più aiuti umanitari. Biden ha annunciato nel discorso sullo Stato dell’Unione la decisione di allestire un porto temporaneo con la Marina lungo la costa di Gaza per permettere l’arrivo di soccorsi. Ne ha discusso anche con Giorgia Meloni.

«Sugli aiuti non aspettiamo Israele», ha detto una fonte. Dovrebbe essere aperto anche un valico a nord del territorio palestinese, dove la situazione è più disperata. La delegazione guidata dai capi di Hamas ha lasciato il Cairo e per ora i negoziati. Nella capitale egiziana mancava il boss che in questo momento sembra prendere le decisioni. Yahya Sinwar, il pianificatore dei massacri del 7 ottobre, si nasconde nelle gallerie scavate sotto la sabbia della Striscia e da lì avrebbe mandato il messaggio di irrigidire le condizioni per raggiungere un’intesa per la pausa nei combattimenti e il rilascio del centinaio di ostaggi ancora in vita tenuti dai terroristi.

TACCUINO | Tutti i numeri degli Houthi
editorialista
di Guido Olimpio

imageLa Rubymar, cargo affondato dagli Houthi il 3 marzo (foto Epa/Yemeni Al-Joumhouriya)

I numeri degli Houthi, a fornirli il loro leader Abdul Malik al Houthi. La milizia — secondo la sua versione — ha condotto 64 strike in Mar Rosso e 32 contro Israele, lanciati 403 vettori (droni kamikaze, missili balistici, cruise). In uno show di propaganda ha rimarcato come siano riusciti a superare difficoltà tecniche, manovre e camuffamenti. A oggi una nave è affondata (la Rubymar), una è stata abbandonata e altre hanno riportato danni di vario tipo. Una petroliera continua ad essere trattenuta in un porto yemenita.

Per quanto riguarda i raid verso lo Stato ebraico non sembra che i guerriglieri abbiano avuto successi rilevanti, gli ordigni — tranne uno — sono stati tutti intercettati dallo scudo creato dalle Marine occidentali e da sistemi israeliani.

Avviso ai naviganti. Un esperto, seguendo i transponder Ais sul web, ha notato il possibile rifornimento da parte di un cargo in favore della Behshad, unità-spia usata dagli iraniani a sud delle coste dello Yemen in appoggio agli Houthi. Era già avvenuto in gennaio.

Terrorismo. Lima: la polizia ha fermato un iraniano e un cittadino peruviano sospettati di preparare un attentato in occasione della conferenza internazionale Apec. I dettagli sono ancora scarni.

3. Zelensky: «Se saremo sconfitti, poi toccherà ai Paesi Nato»
editorialista
di Lorenzo Cremonesi
inviato a Kiev

imageZelensky da Bruno Vespa (foto Ansa/Massimo Percossi)

Volodymyr Zelensky al contrattacco. Determinato a lasciarsi alle spalle la pagina nera della sconfitta di Avdiivka nel Donbass a febbraio, della valanga di critiche per il licenziamento del suo capo delle forze armate Valeryi Zaluzhny e delle preoccupazioni per il congelamento degli aiuti americani, il presidente ucraino rilancia gli argomenti a lui cari della necessità del fronte comune tra le democrazie contro l’espansionismo militare della dittatura di Putin.

«Una tregua nella guerra porterebbe non alla pace, bensì ad una situazione ancora più pericolosa per noi ucraini e per voi europei. Una pausa servirebbe a Putin per rafforzarsi, perché è lui il primo ad averne bisogno, deve trovare nuovi soldati e nuove armi per rimpiazzare tutto ciò che ha perduto sul nostro territorio. Accadrebbe come nel 2014, quando il cessate il fuoco gli fu utile per preparare la nuova guerra», ha dichiarato durante l’intervista ieri a Bruno Vespa per Cinque Minuti e Porta a Porta.

Pare in via di superamento il periodo di smarrimento, Zelensky si concentra sugli alleati europei. Lo aiutano alcune buone notizie. Tra queste l’arrivo di 800.000 munizioni, compresi parecchi colpi per le artiglierie da 155 millimetri, comprate sul mercato internazionale delle armi (visto che le industrie belliche europee ancora faticano a tenere il passo) con il miliardo e mezzo di euro raccolti dal trust di 13 Paesi organizzati dalla Repubblica Ceca, tra cui Gran Bretagna, Canada, Francia e Danimarca. La Norvegia, a sua volta, investe 153 milioni di euro e manda altre munizioni.

Anche sul fronte interno il presidente è determinato ad appianare le tensioni: ieri ha nominato Zaluzhny ambasciatore a Londra, come ventilato da tempo, smentendo così chi prevedeva lo scontro con l’ex generale per la successione alla guida del Paese. Alla televisione italiana Zelensky insiste sulla necessità di restare uniti. «Se l’Ucraina cade, la Russia sicuramente aggredirà la Nato», dice, «e l’Italia sarebbe costretta a intervenire».

E chiede armi, anche missili a lungo raggio, che «comunque useremo solo nei territori occupati», aggiunge per dissipare le preoccupazioni tedesche. Riferendosi ai missili caduti due giorni fa vicino al luogo del suo incontro col premier greco, chiede: «Se a Odessa con me ci fosse stata Giorgia Meloni cosa avrebbero detto i filorussi in Italia?». Sua preoccupazione restano coloro che nelle società europee «non hanno ancora capito il pericolo» rappresentato dall’espansionismo muscolare del regime russo.

A conferma delle sue parole arrivano le dichiarazioni del consigliere per la Sicurezza del Cremlino, Nikolai Patrushev, che torna a minacciare la bomba atomica e «conseguenze tragiche» per chi arma l’Ucraina. Il ministero degli Esteri russo mette anche in guardia l’ambasciatrice americana, Lynne Tracy, sull’eventualità dell’espulsione nel caso «continui a interferire negli affari interni russi». Mosca ha criticato la presenza dei rappresentanti occidentali ai funerali di Navalny.

A Parigi, intanto, il presidente Macron ha incontrato i rappresentanti delle opposizioni mostrando loro mappe dell’Ucraina e spiegando che non ci devono essere limiti al sostegno a Kiev. Osservazioni che hanno ricevuto la risposta di Dmitry Medvedev, numero due del Consiglio di sicurezza russo: «Questo significa che anche la Russia non ha più alcuna linea rossa», ha scritto su X.

4. Il governo canadese risarcisce con 6 milioni uno dei «Due Michael» detenuti per tre anni in Cina
editorialista
di Guido Santevecchi

imageSettembre 2021: Michael Spavor e Michael Kovrig accolti all’aeroporto dal premier Trudeau dopo la liberazione

Non ci sono buoni e cattivi in senso assoluto nel mondo dello spionaggio. Tutto è relativo e c’è sempre una zona grigia. L’ultima prova viene dal Canada, dalla svolta nella vicenda di Michael Spavor, consulente d’affari esperto di Nord Corea che fu detenuto per quasi tre anni in Cina tra il 2018 e il 2021 con l’accusa di aver «attentato alla sicurezza nazionale» in combutta con il compatriota Michael Kovrig, diplomatico in aspettativa.

Il governo canadese sostenne (e continua ad affermare) che i «Due Michael» fossero vittime collaterali del Caso Huawei, incarcerati da Pechino in rappresaglia per la detenzione in Canada di Meng Wanzhou, figlia del fondatore del colosso delle telecomunicazioni, inseguita da un mandato di cattura americano. I tre furono liberati lo stesso giorno del settembre 2021, al termine di una trattativa internazionale con molte ipocrisie e minacce.

Ma ora Michael Spavor ha ottenuto un risarcimento milionario dal governo di Ottawa, dopo aver minacciato di fare causa per essere stato usato inconsapevolmente dallo spionaggio canadese. Forse, anche Pechino aveva delle carte in mano, dopo tutto.

Non ci sono certezze in questa vicenda di doppi e tripli giochi. «Posso solo dire che la vertenza è stata chiusa», ha detto l’avvocato di Spavor. La stampa canadese ha scritto che il governo ha accettato con accordo extragiudiziale di pagare 6 milioni di dollari canadesi (4 milioni di euro). Ottawa ribadisce che la detenzione in Cina fu arbitraria e che ora il governo vuole solo chiudere quella storia drammatica durata oltre mille giorni e aprire un nuovo capitolo nella vita dei due cittadini.

Spavor in Cina faceva il consulente commerciale, era esperto di Nord Corea, era stato numerose volte a Pyongyang dove aveva incontrato anche Kim Jong-un. Una fonte di informazioni sul «regno eremita» preziosa, dunque. Kovrig, diplomatico in aspettativa e consulente della ong International Crisis Group, secondo la nuova ricostruzione, avrebbe ricevuto le confidenze del connazionale e le avrebbe consegnate all’intelligence di Ottawa, che avrebbe passato a sua volta il materiale ai Five Eyes, i Cinque Occhi dell’intelligence che riuniscono oltre al Canada le agenzie di sicurezza di Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia e Nuova Zelanda.

Il diplomatico Kovrig assicura di aver agito alla luce del sole, onorevolmente, senza ingannare l’amico, e di aver semplicemente fatto il proprio dovere, comunicando al ministero degli Esteri le informazioni ricevute da Spavor. Sta di fatto che nel dicembre 2018 la polizia cinese arrestò i due, proprio pochi giorni dopo che la signora Meng di Huawei era stata bloccata in Canada e messa agli arresti domiciliari in una delle sue belle ville di Vancouver. I «Due Michael» invece finirono in cella, con l’accusa vaga di «attentato alla sicurezza nazionale». Il governo di Justin Trudeau accusò la Cina di averli presi in ostaggio per scambiarli con Meng.

Di sicuro, i tempi dell’arresto dei due canadesi destano sospetto, subito dopo il fermo della dirigente cinese di Huawei. E Pechino non ha mai precisato quale fosse l’attentato alla propria sicurezza nazionale di cui si sarebbero resi colpevoli l’uomo d’affari e il diplomatico.

Una commissione d’inchiesta a Ottawa ha rivelato recentemente che il ministero degli Esteri canadese gestisce un programma di raccolta di informazioni che «opera in un’area grigia», utilizzando fonti diplomatiche per scopi di intelligence. Questo programma, secondo l’indagine indipendente, metterebbe a rischio i funzionari impegnati in «Paesi dove il rispetto dei diritti umani è scarso». Michael Spavor sarebbe finito in questo sistema, senza esserne consapevole. E sarebbe poi stato utilizzato come pedina di scambio dalla Cina.

5. Hong Kong raddoppia la Legge di sicurezza e inasprisce le pene

imageI deputati-patrioti del Legislative Council di Hong Kong

(Guido Santevecchi) La Legge di sicurezza nazionale cinese, imposta a Hong Kong nel 2020, ha stroncato ogni manifestazione di dissenso e spedito in carcere o all’esilio centinaia di cittadini. Ma il governo dell’ex colonia britannica ha deciso un’ulteriore stretta. Oggi ha presentato una sua nuova normativa che include i crimini di tradimento, insurrezione, sabotaggio contro la sicurezza, interferenza straniera, furto di segreti statali e spionaggio. La pena per alcuni di questi reati è l’ergastolo.

La nuova legge hongkonghese è arrivata al Legislative Council, il parlamento del territorio, dove non siedono più deputati di opposizione ma solo «patrioti», che amano e rispettano la Cina e il suo Partito comunista: nessun dubbio dunque che le dure regole di sicurezza saranno approvate. John Lee, l’ex capo della polizia che ora guida il governo, ha chiesto ai parlamentari di andare al voto «a tutta velocità». I patrioti eseguiranno.

Sarebbe stata tutta un’altra storia ancora cinque anni fa, prima che Xi Jinping ordinasse di chiudere la partita con il movimento democratico di Hong Kong, tradendo la promessa di mantenere fino al 2047 la formula «Un Paese e Due Sistemi» che garantiva un governo semi-democratico, differente da quello che impedisce la libertà di espressione in tutte le altre città della Cina. Dal 1997, quando il territorio fu restituito alla madrepatria cinese, i sette milioni di abitanti della City avevano potuto manifestare dissenso, sfidare il potere in strada per difendere le loro libertà speciali, in campo politico, economico, giudiziario.

La nuova legge, che applica l’odiato Articolo 23 della mini-costituzione hongkonghese, avrebbe portato in strada centinaia di migliaia di cittadini, come nel 2003 e nel 2014, quando il governo dovette rinunciare ai suoi piani. Oggi invece nessuno osa contestare. Eppure l’ex poliziotto nominato governatore John Lee ha fretta: evidentemente ancora non si fida, vuole intimidire ulteriormente i simpatizzanti del fronte democratico ed eseguire gli ordini di Pechino. A costo di danneggiare l’economia.

Le regole di democrazia imperfetta concordate tra Londra e Pechino per la restituzione, avevano fatto la fortuna di Hong Kong, diventata un grande centro di affari e investimenti internazionali. La Legge di sicurezza cinese imposta nel 2020 ha danneggiato l’economia hongkonghese. Se ora il governo locale ha deciso di raddoppiarla, con un pacchetto di nuove norme, è segno che Xi Jinping continua a mettere la sicurezza dello Stato (vale a dire il potere del Partito comunista) davanti a ogni ragione di sviluppo economico.

È scritto nella legge, all’articolo che definisce i «segreti statali» e elenca nella categoria i dati economici, industriali, sociali, sullo sviluppo tecnologico e scientifico. Tutte informazioni essenziali per aziende che vogliano operare a Hong Kong o in Cina, ma ora averle o diffonderle potrebbe portare in carcere, dipenderà solo dall’interpretazione più utile al governo. E gli avvocati hongkonghesi dicono che anche criticare l’autorità, senza nemmeno scendere in piazza, con la nuova legge può essere definito «sedizione», reato che prevede fino a sette anni di carcere.

6. Il viaggio americano di Orbán, fra Bannon e Trump
editorialista
di Samuele Finetti

imageSteve Bannon e Viktor Orbán ieri all’ambasciata ungherese di Washington

Viktor Orbán non ha dubbi: tra Joe Biden e Donald Trump, punta su quest’ultimo in vista delle elezioni del 5 novembre. Già tre settimane fa, in un discorso sullo Stato della Nazione, il premier ungherese aveva chiaramente affermato che «ci farebbe molto piacere se Trump tornasse alla Casa Bianca». Ieri, mentre il presidente americano Joe Biden pronunciava il discorso sulla Stato dell’Unione davanti al Congresso, Orbán è atterrato negli Stati Uniti — senza alcun invito ufficiale dalla Casa Bianca — per una serie di incontri con personalità del mondo conservatore americano.

Prima tappa a Washington, dove ha partecipato a un dibattito con il presidente della Heritage Foundation, un importante think tank vicino al partito repubblicano; poi ha ricevuto Steve Bannon, uno degli ideologi di Donald Trump, all’ambasciata ungherese. Ma la ciliegina sulla torta è prevista per oggi, quando Orbán volerà in Florida per un faccia a faccia con Trump in persona. Il tycoon lo accoglierà a Mar-a-Lago, la megavilla diventata da tempo quartier generale suo e del trumpismo in generale.

Un caso più unico che raro, il fatto che un primo ministro di un Paese della Nato arrivi negli Stati Uniti e riparta senza vedere neppure un membro dell’amministrazione. Un dettaglio che alimenta il timore che Orbán voglia usare questa trasferta per promuovere posizioni vicine al Cremlino presso l’entourage dell’ex presidente. Con Trump, l’ungherese condivide anche lo scetticismo sulla Nato: l’Ungheria è stato l’ultimo Paese dell’Alleanza a dare il via libera all’ingresso della Svezia (ufficializzato ieri), mentre The Donald ha detto senza troppi giri di parole che «incoraggerebbe la Russia a fare ciò che vuole» in Europa, compreso attaccare i membri della Nato che non raggiungono gli obiettivi di spesa militare.

7. I due rapporti sulle stragi negli Stati Uniti

imageI fiori sull’insegna della Robb Elementary School di Uvalde, Texas, per ricordare le vittime (foto Ap/Jae C. Hong)

(Guido Olimpio) Due rapporti che fanno discutere su stragi avvenute negli Usa nel recente passato.

Ottobre di un anno fa, Robert Card uccide 18 persone nel Maine e poi si toglie la vita. Uno studio sul suo cervello commissionato dalla famiglia ha trovato danni celebrali probabilmente causati dagli effetti delle esplosioni. Il killer era un veterano dell’esercito e non ha mai partecipato ad un conflitto ma ha seguito training dove sono state usate granate. Gli esperti, però, si dividono sulle conclusioni delle analisi, alcuni invitano alla prudenza anche se riconoscono che, in certe situazioni, potrebbero esserci conseguenze negative.

Maggio 2022, massacro nella scuola elementare di Uvalde (Texas), una ventina di morti in gran parte minori. Le autorità locali hanno diffuso i risultati di un’inchiesta interna che ha di fatto assolto il comportamento della polizia. Un «verdetto» accolto con rabbia dalle famiglie delle piccole vittime, infatti molti genitori hanno lasciato in anticipo la sala. Va ricordato come l’indagine condotta a livello federale abbia messo sotto accusa gli agenti, entrati in azione con grande ritardo (oltre un’ora dopo l’allarme) e in modo poco efficace.

8. Rupert Murdoch si sposa per la quinta volta (a 93 anni)

imageElena Zukhova, a sinistra, e Rupert Murdoch, a destra

(Andrea Marinelli) Lo «Squalo» si sposa, a quasi 93 anni, per la quinta volta. Il magnate dei media Rupert Murdoch, che a settembre aveva lasciato l’impero di News Corporation e Fox News al figlio Lachlan, ha annunciato che a giugno convolerà a nozze con la sua nuova fidanzata, Elena Zhukova, 67 anni, una biologa molecolare in pensione conosciuta grazie alla terza moglie Wendi Deng. La cerimonia è stata organizzata fra i vigneti della tenuta californiana di Moraga, a Los Angeles, e gli inviti — hanno precisato dall’ufficio di Murdoch, che compirà 93 anni l’11 marzo — sono già stati spediti.

La coppia ha iniziato a frequentarsi la scorsa estate, poco dopo che il miliardario australiano — patrimonio di 9 miliardi, secondo l’indice di Forbes — aveva all’improvviso annullato le nozze previste con la giornalista radiofonica Ann Lesley Smith, 66 anni, ex igienista dentale ed ex cappellana volontaria nelle carceri di San Francisco — Murdoch, secondo Vanity Fair, si sentiva a disagio per le idee evangeliche della futura moglie — che aveva conosciuto proprio durante un ricevimento a Moraga e con la quale si era fidanzato sei mesi dopo la rottura — pare via mail — con la quarta consorte Jerry Hall.

Con la modella, ed ex partner di Mick Jagger, si era sposato nel 2016 a Londra, dopo aver annunciato il fidanzamento sul Times, e aveva divorziato nell’estate del 2022. In precedenza era stato sposato dal 1956 al 1967 con Patricia Booker, una assistente di volo australiana dalla quale ha avuto la figlia Prudence nel 1958, e poi per 32 anni con Anna Torv, una reporter scozzese che lavorava per uno dei suoi giornali a Sydney, il Daily Mirror, e con la quale ha avuto Elisabeth (1968), Lachlan (1971) e James (1972).

A giugno del 1999, appena 17 giorni dopo aver divorziato da Torv, Murdoch ha sposato a bordo del suo yacht «Morning Glory» Wendi Deng, una trentenne cinese appena uscita dalla School of Management di Yale, che lavorava per la sua Star Tv, televisione con sede a Hong Kong. Da lei ha avuto le ultime due figlie — Grace nel 2001, alla quale fece da padrino Tony Blair, e Chloe nel 2003 (a 73 anni) — prima di divorziare a giugno del 2013: a quel punto, spiegarono i portavoce di News Corporation, «il matrimonio si era irrimediabilmente rotto già da sei mesi». E così, dopo il fallimento del matrimonio con Hall e i piani saltati con Smith, dopo sei figli e tredici nipoti, è arrivato il turno della quinta signora Murdoch.

Elena Zukhova è arrivata negli Stati Uniti da Mosca al tramonto dell’Unione Sovietica con l’ex marito Alexander Zhukov: lui ha fatto miliardi investendo nel settore energetico e oggi risiede a Londra con cittadinanza britannica; lei si è distinta per i suoi studi sul diabete a Ucla, l’università della California a Los Angeles. I due hanno anche una figlia, Dasha, collezionista d’arte e filantropa che fino al 2017 era sposata con l’oligarca Roman Abramovich, noto alle cronache sportive per essere stato — con successo — il proprietario del Chelsea, a quelle geopolitiche per aver tentato — senza successo — di mediare nella guerra russo-ucraina.

Grazie di averci letto anche questa settimana. Buon weekend,

Andrea Marinelli


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