Perché i super ricchi sono diventati più avari ed è un problema per tutti

Perché i super ricchi sono diventati più avari ed è un problema per tutti Perché i super ricchi sono diventati più avari ed è un problema per tutti

Non ci sono più i ricchi di una volta, ed è un problema per tutti. Perché tradizionalmente i più ricchi sapevano che la loro ricchezza era un privilegio mal visto e nei periodi più difficili erano disposti a rendere qualcosa alle società in cui vivevano, per pareggiare almeno in parte i conti. Oggi non è più così e il rischio è la destabilizzazione della società contemporanea.È la tesi di un editoriale del New York Times firmato dall’italiano Guido Alfani. Si tratta di un «guest essay», uno degli articoli di opinione che il grande quotidiano americano fa scrivere a firme esterne alla sua organizzazione quando vuole aprire il dibattito in corso su temi rilevanti. Alfani insegna Storia economica all’Università Bocconi di Milano e ha fatto a lungo ricerche su come le grandi epidemie della storia hanno cambiato le società che ne sono state colpite (compresa quella di Covid). L’articolo sul Nyt è un estratto adattato dal suo libro di prossima pubblicazione negli Stati Uniti, As Gods Among Men: A History of the Rich in the West («Come Dei tra gli uomini. Una storia dei ricchi in Occidente»).

«A partire dal XV secolo, e a partire dalle aree economicamente più sviluppate dell’Europa, come l’Italia centro-settentrionale, ai ricchi fu assegnato un ruolo sociale specifico: fungere da riserva privata di denaro a cui la comunità poteva attingere nei momenti di maggiore necessità» spiega Alfani. Erano considerati come «granai privati di denaro» per usare l’espressione coniata dall’umanista toscano Poggio Bracciolini nel suo trattato del 1428 De avaritia («Sull’avarizia»): così come le autorità accumulavano riserve pubbliche di cibo a cui attingere nei momenti di carestia, le comunità avevano bisogno dei ricchi («molti individui avidi» li definiva Bracciolini) per attingere ai loro patrimoni nei momenti di difficoltà collettiva. Esempi di questo meccanismo sono i prestiti forzosi imposti da Venezia ai suoi cittadini più ricchi dopo la peste del 1630 durante la guerra contro l’Impero Ottomano nel 1645-69, ma anche i «Liberty Bond» emessi negli Stati Uniti nel 1917-18 per finanziare la partecipazione alla Prima guerra mondiale. La tassazione progressiva è un’altra forma di applicazione di questo principio, secondo cui chi ha molto o moltissimo deve aiutare di più gli altri. Un principio che però adesso secondo Alfani è in crisi.

Nonostante la crisi del debito e la pandemia di Covid infatti in Europa e in Nord America non c’è stato un aumento significativo della tassazione sui grandi patrimoni e negli Stati Uniti i propositi del presidente Joe Biden di farlo sono largamente falliti. Anzi, durante la pandemia di Covid le disuguaglianze sono aumentate, e Alfani ipotizza che «l’eccezionale resilienza dei ricchi alle recenti crisi sia stata ottenuta in modo tale da rendere la società nel suo complesso meno resiliente», visto che l’alto debito pubblico accumulato durante la pandemia in molti Paesi peserà soprattutto sui più poveri.

«I ricchi di oggi, la cui ricchezza è stata in gran parte preservata dalla Grande Recessione (quella della crisi del debito, ndr) e dalla pandemia di Covid-19, si sono opposti alle riforme volte a sfruttare le loro risorse per finanziare politiche di mitigazione di ogni tipo. Si tratta di uno sviluppo storicamente eccezionale. Contribuire a pagare il conto delle grandi crisi è stata a lungo la principale funzione sociale attribuita ai ricchi dalla cultura occidentale. In passato, quando i più ricchi sono stati percepiti come insensibili alle difficoltà delle masse, e soprattutto quando sono sembrati trarre profitto da tali difficoltà (o sono stati semplicemente sospettati di farlo), la società è diventata instabile, portando a disordini, rivolte aperte e violenza antiricchezza» scrive Alfani, che guarda con preoccupazione sia all’incapacità degli Stati di aumentare le tasse per i ricchi e alla discesa diretta dei ricchi in politica (il cui esempio più eclatante, in Italia, è stato Silvio Berlusconi). Per Alfani questa tendenza rappresenta la rottura di un «contratto sociale vecchio di secoli», le cui conseguenze sono ignote e pericolose.

Per altro non è soltanto che i ricchi contribuiscono meno (in proporzione) al benessere comune, è anche che la distanza tra i pochi che hanno molto e i molti che hanno poco è sempre più marcata. Negli ultimi 30 anni le diseguaglianze in Italia sono aumentate in modo molto significativo, come scrivono Daniele Checchi e Tullio Japelli su Lavoce.info e oggi il nostro Paese è uno dei più diseguali dell’Ocse: «In termini di disuguaglianza il nostro paese occupa la terza posizione, dopo Stati Uniti e Spagna. La Germania, la Francia e la maggior parte degli altri Paesi europei presentano indici di Gini inferiori del 10-20 per cento rispetto all’Italia» spiegano i due economisti. Ma diseguaglianze sociali molto marcate hanno conseguenze anche politiche, perché fanno funzionare peggio la democrazia. Gli Stati rimangono formalmente democratici, ma i ceti sociali più ricchi hanno una sproporzione di potere perché controllano le risorse necessarie al funzionamento della macchina democratica (basti pensare ai finanziamenti delle campagne elettorali). È per questo che garantire una più equa distribuzione della ricchezza non è soltanto una questione economica.

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