Lo show di Allegri: addio Juventus con vittoria e furia. Espulso, cerca il designatore: «Dov'è Rocchi».
A un passo dal finire la sua stagione e la sua carriera alla Juventus, Massimiliano Allegri esplode in fondo alla finale di Coppa Italia. Tutte le tensioni con squadra e dirigenza
Furente e vincente, Massimiliano Allegri se ne va così: con la Coppa Italia nella bacheca di una stagione altrimenti deprimente, e la giacca e la cravatta lanciati sul prato, urlando di tutto a Maresca e al quarto uomo, in uno dei suoi ormai famosi strip-tease.
Per questo (giustamente) espulso, mentre stava esagerando, sbottonandosi la camicia, come fanno i bulli, e gridando verso la tribuna, chiedendo del designatore arbitrale: «Dov’è Rocchi? Dov’è?». A scatenare l’inferno, un po’ hollywoodiano, pure per perdere tempo, come nel basket facevano Dan Peterson e Valerio Bianchini, erano stati il maxirecupero e una mischia in area.
Va da sé, il Dio desnudo se n’è andato comunque osannato dalla curva (e portato in trionfo dalla squadra), dopo aver schiantato una Dea che pareva spinta dal fato. Nell’ora più buia, Allegri riscopre l’arte di vincere che, come l’amalgama di Angelo Massimino, non si compra: così, all’ultimo tentativo dell’ultima stagione bianconera, arraffa l’unico trofeo, evitando di diventare il meme di se stesso. «Se uno non vince mai, ci sarà un motivo», sbottò, cinque anni fa, quando fu messo alla porta da Andrea Agnelli.
Lanciando l’anatema a chi sarebbe venuto dopo di lui; e, sibilarono i maligni, a chi sa insegnare (bel) calcio, ma non riesce a trionfare. Come il bravissimo Gasperson, per dire. Eppure, fino a ieri, sulla sua Juve Parte seconda aleggiava la maledizione del «ziru tituli» per tre anni filati, in un remake che è stato l’esatto opposto del suo primo film alla Juve: un blockbuster irripetibile, da cinque scudetti filati e due finali di Champions (seppur perse), oltre coppe assortite.
La stagione pareva un romanzo di Kafka, piena di labirinti senza uscita, come l’agrimensore che non arriva mai al «Castello», o il signor K. che non scoprirà mai di quale reato è accusato nel «Processo». Pure in questo caso però, la sentenza è pronta da tempo, qualsiasi fosse stato l’epilogo della stagione, compresa la serata di gala dell’Olimpico. Insomma, Coppa o non Coppa.
Vincere un trofeo, per Allegri, non era solo una faccenda aziendale — e fieramente aziendalista lui s’è sempre definito — ma era diventata una questione d’onore. Tutto era andato perso per strada, dopo un girone d’andata da ritrovata grandeur: i risultati, la squadra, il gioco manco a parlarne, si erano dissolti, in un ritorno faticosamente arrivato alla qualificazione alla prossima Champions. «Che era poi l’obiettivo», concetto da ripetere, e ripetuto, «fino alla noia». Giusto per presentarsi alla Continassa con l’ordine di servizio rispettato, e il bilancio onorato: tra il fatturato del ritorno nel jet set continentale, dai 60 milioni in su, ai ricavi del nuovo mondiale per club. Non è poco, non è tutto: semplicemente, è.
Salvare il matrimonio, tra Madama e Allegri è però dura: pensiero più che strisciante già da diversi mesi, visti i rapporti incrinati; nonostante Cristiano Giuntoli, da buon capo dell’area tecnica, l’abbia sempre confermato e difeso, nel mezzo della tempesta. Ma l’aria che filtrava dai piani alti è diventata buriana, era arrivata ai giocatori: e, quando è così, tanti saluti. Dopo che la stagione precedente, Max aveva fatto l’allenatore e il dirigente, mentre la società andava in frantumi. Si lasceranno così, per umano logoramento: a trasformare il futuro in una nuova saga ci proverà Thiago Merlino.