A Gaza, a Kharkiv, al senato americano: la difficoltà di raggiungere un accordo

America-Cina Il Punto | La newsletter del Corriere della Sera
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Lunedì 5 febbraio 2024
La difficoltà di trovare un accordo
editorialista di Andrea Marinelli

Questa notte gli alert dei principali giornali americani hanno fatto illuminare i telefoni anche da questa parte dell’Oceano: «accordo raggiunto al Senato», si leggeva, «è stata presentata una proposta di legge da 118 miliardi di dollari per aiutare l’Ucraina, Israele, l’Indo-Pacifico e le frontiere Usa che verrà votata dal Senato a partire da mercoledì».

Questo accordo, tuttavia, non passerà: lo boicotta Donald Trump e sarà respinto alla Camera, come ha chiarito lo speaker Johnson che ha presentato un testo contrapposto a quello del Senato che finanzia solo Israele. Un accordo, a quanto pare, sembra allontanarsi anche a Gaza (sopra, nella foto Afp, soldati israeliani a Khan Younis), dove i leader di Hamas non sembrano convinti dai termini e alzano la posta.

Buongiorno, e bentornati su AmericaCina per un’altra settimana di viaggio fra i poli di questa newsletter: Washington, appunto, e Pechino, dove è stato condannato a morte lo scrittore australiano Yang, accusato di spionaggio. Come sempre, lungo il nostro itinerario effettueremo fermate intermedie: a Kharkiv, dove di arrendersi proprio non vogliono saperne; a Mosca, dove si contano i sabotaggi ai treni ed è stato avvistato Tucker Carlson; a Hong Kong, dove ci sono 38 mila persone furiose per non aver visto giocare Messi.

Vi salutiamo infine con la storia di Ballerina Farm, ovvero Hannah Neeleman: 33 anni, 8 figli di cui una appena nata, che vive in una fattoria dello Utah e sta partecipando alle selezioni per miss Mondo.

Buona lettura.

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1. Accordi (al Senato) e disaccordi (alla Camera) sugli aiuti a Ucraina e Israele
editorialista
di Massimo Gaggi
da New York

imageIl leader dei repubblicani in Senato Mitch McConnell, 81 anni (foto Afp/Kevin Dietsch)

Mentre il segretario di Stato Antony Blinken è impegnato nella sua sesta missione diplomatica in Medio Oriente dall’inizio della guerra a Gaza innescata dai massacri di Hamas, a Washington — dopo settimane di negoziati, colpi bassi, dispute sotterranee — siamo allo scontro aperto tra Camera e Senato sull’assistenza militare a Israele, all’Ucraina e sugli interventi per frenare l’immigrazione clandestina dal confine meridionale degli Stati Uniti. Nell’autunno scorso i tentativi di Joe Biden di far approvare dal Congresso grossi pacchetti di aiuti militari all’Ucraina e a Israele furono bloccati dai repubblicani per i quali la crisi alla frontiera viene prima del sostegno a Paesi alleati o amici.

Dopo alcune iniziali esitazioni, il presidente e i democratici hanno accettato di inserire nella legge sull’assistenza militare all’estero (che riguarda anche l’area dell’Indo-Pacifico) le misure più severe mai adottate dagli Usa per frenare i flussi migratori: blocco se arrivano più di 5.000 migranti al giorno col presidente che può far scattare lo stop già a quota 4.000. E assunzione di migliaia di funzionari per esaminare le richieste d’asilo e rimandare indietro rapidamente quelli che non hanno diritto (ora chi lo chiede rimane in America per anni, in genere 4, in attesa del giudizio sulla sua domanda).

Mentre al Senato democratici e repubblicani negoziavano i dettagli dell’accordo bipartisan, Donald Trump, che vuole impostare la sua campagna elettorale proprio sul caos alle frontiere, è insorto: niente accordo, sarebbe un regalo a Biden. Alla Camera (a maggioranza repubblicana) lo speaker Mike Johnson, che già rischia di essere defenestrato dall’ala radicale trumpiana, si è subito allineato: «È inutile che il Senato (dove la maggioranza è democratica) vari quella legge: da noi non passerà mai».

Pur sapendo che in questo modo finisce di nuovo nel mirino di Trump e dei radicali del suo partito, il leader dei senatori repubblicani Mitch McConnell, grande sostenitore della causa ucraina e convinto della necessità di aiutare gli alleati degli Stati Uniti e di finanziare le operazioni Usa nel mondo, ha continuato a negoziare. Ieri sera, raggiunto l’accordo, è stata presentata una proposta di legge da 118 miliardi di dollari (60 dei quali per l’Ucraina, 14 per Israele, 10 di assistenza umanitaria, circa 5 per l’Indo-Pacifico e 20 per le frontiere Usa) che verrà votata dal Senato a partire da mercoledì.

Alla Camera Johnson non solo ha ribadito che quella legge non ha futuro nella sua aula, ma ha presentato un testo legislativo contrapposto a quello del Senato che finanzia solo Israele. Tutti e due i provvedimenti sollevano grossi malumori anche nei partiti dei proponenti: al Senato alcuni repubblicani vicini a Trump come J.D. Vance hanno definito atroce l’accordo siglato da McConnell mentre il senatore dello Utah Mike Lee ha chiesto l’immediata defenestrazione del leader dei parlamentari repubblicani. Qualche problema anche in casa democratica, dove la sinistra liberal non ha digerito la stretta sull’immigrazione.

Grossi guai anche per Johnson che alla Camera ha una maggioranza di appena tre-quattro voti. Sono già diversi i deputati repubblicani filo ucraini e quelli dell’estrema destra «interventista» contrari a una misura che finanzia solo Israele. Lo speaker conta di compensare le defezioni nel suo partito col voto di parecchi democratici: Il partito di Biden osteggia questa legge e Jake Sullivan, consigliere per la Sicurezza nazionale alla Casa Bianca, ieri l’ha definita uno stratagemma malevolo.

Ma Johnson scommette su una limitata pattuglia di deputati della sinistra, solidi sostenitori di Israele. Un provvedimento simile, bocciato a novembre, ottenne comunque il voto favorevole di 12 democratici. Ora lo speaker ha tolto dalla nuova legge una fonte di finanziamento — il drastico taglio dei fondi destinati al funzionamento dell’Irs, il Fisco americano — che allora aveva suscitato la dura opposizione della sinistra e anche di diversi conservatori.

Se anche questo provvedimento passerà alla Camera, si creerà uno stallo. A quel punto sarà paralisi parlamentare. Per evitarla potrebbe essere convocata una conferenza comune dei due rami del Parlamento per cercare di «riconciliare» i due testi.

2. Hamas alza la posta sulla tregua
editorialista
di davide frattini
corrispondente da Gerusalemme

imageLa partenza per il Medio Oriente del segretario di Stato americano Antony Blinken (foto Afp/Mark Schiefelbein)

Sinwar sì, ma il minore. Le truppe israeliane sono riuscite a catturare la base della brigata Khan Younis guidata da Mohammed, fratello del capo di Hamas, e hanno perquisito — annunciano i portavoce dell’esercito — la sua stanza di comando dove hanno trovato mappe e documenti per la pianificazione degli assalti al Sud del Paese di quattro mesi fa. Dentro le mura del quartier generale i fondamentalisti avevano anche ricostruito i modelli dei cancelli di ingresso ai kibbutz per addestrare i terroristi agli attacchi.

Mohammed e Yahya restano nascosti nei bunker sotterranei: assieme al «fantasma» Mohammed Deif sono gli obiettivi dell’offensiva contro la cittadina che — a questa intensità — dovrebbe durare ancora una settimana. È in quelle gallerie che i leader dell’organizzazione fuori dalla Striscia dicono di aver recapitato la bozza d’intesa delineata la scorsa settimana a Parigi da americani, egiziani e dal Qatar, in questi anni sponsor finanziario e sostenitore di Hamas. Al vertice aveva partecipato anche David Barnea, il capo del Mossad israeliano, mentre i boss del gruppo hanno ricevuto il documento al Cairo e avrebbero dovuto — secondo alcuni giornali arabi — dare una risposta ieri sera.

Per ora sembrano prendere tempo, un portavoce del movimento ripete: «La decisione arriverà presto». Ismail Haniyeh — ospite a Doha nei lussi offerti dal Qatar – pretende che il numero di detenuti palestinesi scarcerati in cambio degli ostaggi tenuti a Gaza sia molto più alto di quello accordato con l’intesa del novembre scorso. Soprattutto chiede che il cessate il fuoco sia da subito permanente e l’esercito si ritiri dai 363 chilometri quadrati, dove in 120 giorni di guerra i palestinesi uccisi sono oltre 27 mila. Gli americani — rivela il tg del Canale 13stanno premendo su Benjamin Netanyahu perché accetti una tregua di quattro mesi a Gaza, anche perché sono sempre più preoccupati che gli scontri quotidiani con l’Hezbollah libanese — ieri molto duri — diventino conflitto totale.

La giacca blu del premier israeliano sembra strattonata anche dai ministri nel suo governo e dal suo Likud: reclamano che questa volta qualunque patto per il ritorno dei sequestrati sia valutato e discusso da tutto il consiglio, non solo da quello ristretto. Queste divisioni interne — scrive il quotidiano Haaretz — farebbero però parte del gioco delle parti e sarebbero state orchestrate (per poi lasciarle trapelare) dallo stesso Netanyahu, cerca di dimostrare agli americani di non poter concedere più di tanto: «Non accetteremo qualsiasi accordo a qualsiasi prezzo», dichiara.

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TACCUINO | Raid, minacce, negoziati
editorialista
di Guido Olimpio

Raid, scambi di minacce e di messaggi, provocazioni, negoziati su tregua/ostaggi, diplomazia parallela, danni economici e vittime. È il Medio Oriente.

Un dettaglio sulla rappresaglia americana contro le milizie filoiraniane. Nell’attacco contro una grande deposito bellico a Deir ez Zour, in Siria, è stato ucciso un dirigente della formazione Fatemiyoun, composta essenzialmente da afghani e usata da Teheran in appoggio al regime di Assad. Sull’altra barricata hanno perso la vita 6 guerriglieri curdo-siriani, preziosi alleati degli Usa nella lotta all’Isis. Sono stati dilaniati da un drone esplosivo lanciato dai militanti. Esempi perfetti delle dinamiche in atto.

Altro episodio: Naji al Kaabi, esponente di un gruppo iracheno sempre nell’orbita dell’Iran è stato assassinato a Maysan. Un killer lo ha freddato con una sola pallottola mentre era alla guida della sua vettura. Azione di servizi? Affare interno?

L’Egitto è uno dei Paesi a pagare un prezzo alto per le azioni degli Houthi in Mar Rosso. In gennaio l’Autorità che gestisce il Canale di Suez ha incassato dai «pedaggi» 428 milioni di dollari, circa la metà di quanto guadagnato l’anno precedente. Perdite considerevoli per un’economia in grande difficoltà. Nonostante questo, il Cairo ha avuto una reazione cauta e non ha aderito — almeno a livello ufficiale — alla coalizione internazionale.

3. Perché l’Ucraina vuole resistere?
editorialista
di Lorenzo Cremonesi
inviato a Kharkiv

imageLe macerie fumanti a Kharkiv, dopo un attacco missilistico (foto Afp/Sergey Bobok)

«A cosa sarebbe servito il sacrificio di mio fratello Ruslan, morto a 43 anni col mitra in mano sul fronte di Bakhmut in novembre? Per poi lasciare a Putin la nostra terra, quando comunque sappiamo benissimo che quel pazzo criminale mira a prendersi tutta l’Ucraina e molto altro?», diceva due giorni fa Irina, 30 anni, cassiera in un supermercato di Kharkiv, incontrata mentre riparava i danni provocati dall’ennesimo drone russo caduto sei ore prima nel cuore delle zone abitate. Poco lontano, i proprietari del ristorante georgiano Kolcha stavano a loro volta cercando di sostituire i vetri e ripristinando la corrente. «Non si molla neppure di un centimetro, la guerra continua», diceva la 34enne Anastasia, che ha due fratelli soldati nelle trincee di Kherson.

Difficile trovare opinioni differenti, sia tra i civili che tra i soldati. E qui non siamo in Russia: nessuno arresta chi critica Zelensky e il suo governo, o se la prende con gli ufficiali del reclutamento che accettano mazzette per non mandare in prima linea. I blogger scrivono più o meno ciò che credono. Ovviamente non si può essere palesemente filorussi, si passerebbe per agenti nemici: l’Ucraina è stata aggredita e vigono le leggi eccezionali dello stato di guerra. Eppure, la stampa parla abbastanza apertamente dello scontro tra Zelensky e il capo di Stato maggiore Zaluzhny, i commentatori speculano sulle supposte gelosie del presidente nei confronti del suo soldato più popolare e sui possibili candidati alla testa dell’esercito.

Anche la questione sull’opportunità delle elezioni è stata pubblicamente dibattuta e ben pochi credono che si possa votare mentre circa 8 milioni di cittadini sono profughi all’estero, i soldati restano impegnati sui campi di battaglia e nelle zone occupate risulterebbe impossibile andare alle urne, rappresenterebbe il riconoscimento politico della vittoria russa. Ma chi tra le nostre opinioni pubbliche europee crede che gli ucraini dopo due anni di guerra siano ormai usurati, demotivati e disposti in massa al compromesso con Mosca ha come minimo fatto i conti senza l’oste.

«Gli ultimi sondaggi pubblicati dalla società indipendente Rating Group riportano che il 63 per cento della nostra popolazione è contraria a lasciare le terre occupate da Putin e l’88 per cento crede ancora nella nostra vittoria mirata a tornare sui confini del 1991. Stimo che circa un quarto degli ucraini ad oggi sarebbe disposto a fare la pace subito lasciando ai russi ciò che ci hanno rubato con la forza dopo l’aggressione del 24 febbraio 2022», ci dice Yuliya Bidenko, docente di scienze politiche all’università di Kharkiv. Ancora lei aggiunge che proprio in questa città, che sino a due anni fa era considerata la più filorussa del Paese, l’effetto boomerang della guerra voluta da Putin ha spinto la grande maggioranza della gente ad abbracciare il nazionalismo ucraino. «Tanti ormai rifiutano di parlare russo per principio», afferma.

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4. Così i sabotaggi alle ferrovie russe hanno rallentato i rifornimenti militari
editorialista
di Andrea Marinelli e guido olimpio

imageLa stazione di Mark, nei sobborghi di Mosca, dove si è verificato un sabotaggio

Oltre al conflitto novecentesco che si combatte al fronte in Ucraina, ce n’è un altro fantasma, con sabotaggi ed esplosioni che si verificano nei sobborghi delle città russe.

Nei giorni scorsi gli inquirenti russi hanno incriminato due 17enni per aver dato fuoco a una scatola elettrica lungo i binari della ferrovia a Mosca: sono accusati di sabotaggio e rischiano fino a 20 anni di prigione. «I due sospetti — ha comunicato la polizia all’agenzia di stampa statale Tass — sono stati identificati e detenuti nelle loro case di Dolgoprudny, vicino Mosca. È venuto fuori che hanno 17 anni». Secondo gli agenti, uno dei due sarebbe stato contattato online da partigiani ucraini, che gli avrebbero offerto 150 dollari per appiccare il fuoco alla scatola elettrica, un impianto fondamentale perché invia segnali ai macchinisti avvertendoli quando ridurre o aumentare la velocità, oppure se è necessario fermarsi.

Il giovane avrebbe quindi chiesto aiuto all’amico e insieme si sarebbero quindi recati nei sobborghi settentrionali di Mosca portando a termine l’attacco alla stazione di Mark. È possibile che il sabotaggio sia avvenuto il 30 novembre, quando l’agenzia di intelligence militare ucraina Hur aveva annunciato di aver portato a termine un’operazione congiunta con partigiani locali, incendiando due scatole elettriche e ostacolando il traffico ferroviario nei dintorni di Mosca. «Anonimi oppositori del regime di Putin ancora una volta hanno incendiato scatolette elettriche sui binari», aveva annunciato l’Hur, senza esplicitare la propria responsabilità. »Fuoco, caos e paralisi sulle ferrovie russe sono tutti una conseguenza della guerra criminale contro l’Ucraina».

(...) Dall’inizio dell’operazione militare speciale, le forze dell’ordine russe hanno registrato 184 incidenti o sabotaggi contro la rete ferroviaria RZhD — la più estesa del Paese: corre per 85.600 chilometri — in 58 degli 89 «soggetti federali», come oblast e repubbliche: una media di due alla settimana, ha spiegato il 22 gennaio Stanislav Kolesnik, vicecapo dell’Ordine pubblico al ministero degli Affari interni di Mosca. Questi sabotaggi ferroviari, spesso sminuiti dalle autorità russe, hanno tuttavia avuto un ruolo centrale nelle azioni di contrasto alla guerra di Putin, in particolare perché l’Armata si affida principalmente alle ferrovie per la logistica militare. I danni vengono riparati rapidamente, ha spiegato nei mesi scorsi il ministero della Difesa britannico in uno dei suoi report, ma questi incidenti aggiungono pressione sulle forze di sicurezza interne russe.

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5. Tucker Carlson è a Mosca per intervistare Putin?

imageTucker Carlson all’aeroporto di Mosca

(Andrea Marinelli) Sostiene un canale Telegram vicino alle agenzie di sicurezza russe che Tucker Carlson sarebbe stato avvistato a Mosca. Pare che il commentatore politico ultratrumpiano cacciato da Fox News sia stato fotografato all’aeroporto della capitale russa e al teatro Bolshoi, dove avrebbe assistito ieri a un balletto. Sostiene il suddetto canale Telegram che Carlson — arrivato con un volo da Istanbul tre giorni prima — sarebbe a Mosca per intervistare il presidente Vladimir Putin, nuovo zar di tutte le Russie.

La notizia sta rimbalzando da un lato all’altro dello stretto di Bering.

  • Negli Stati Uniti si specula sul motivo del viaggio, il suo primo a Mosca. «Abbiamo una stampa libera in questo Paese, e dipendiamo da persone come Tucker Carlson per avere la verità», ha twittato con entusiasmo la deputata trumpiana e complottista Marjorie Taylor Greene, spesso trasmessa sui canali di Stato della Federazione per le sue posizioni filorusse. «È un traditore», ha ribattuto l’ex deputato repubblicano Adam Kinzinger, accusandolo di essere «impregnato di propaganda».
  • In Russia gli analisti vicino al Cremlino e i blogger militari sono certi che il motivo della visita sia proprio un’intervista con il presidente, e che si tratterebbe di «un evento epocale», come ha affermato il canale Telegram Bezgranichny Analitik «senza esagerazioni». Effettivamente sarebbe la prima intervista di Putin con un giornalista occidentale dall’inizio — ormai due anni fa — dell’operazione militare speciale.

Poco dopo l’invasione dell’Ucraina, la rivista americana di sinistra Mother Jones aveva pubblicato quello che riteneva essere un memo interno del Cremlino, nel quale si invitava i media statali a usare nei propri notiziari più immagini di Carlson, il «popolare conduttore americano che critica duramente le azioni di Stati Uniti e Nato, il loro ruolo negativo nel conflitto e il comportamento provocatorio dei Paesi occidentali e della Nato rispetto alla Russia e al presidente Putin in persona».

Ad agosto del 2023 la giornalista filoputiniana Margarita Simonyan aveva rivelato che Carlson aveva richiesto un’intervista proprio al presidente russo, notizia confermata poi a settembre dallo stesso Carlson. Il giornalista aveva sostenuto però che il governo americano glielo aveva impedito. «Chissà perché?», si chiedeva sarcasticamente Carlson che — sostengono i canali moscoviti — «ha una nota simpatia per la Russia».

Dopo essere stato cacciato da Fox News ad aprile 2023 in seguito allo scandalo che ha travolto il network, accusato di diffamazione per le ben note bugie elettorali di Trump rilanciate a ruota libera, Carlson ha lanciato un suo servizio di streaming e nel frattempo ha intervistato su X il presidente Argentino Javier Milei e quello ungherese Viktor Orbán.

imageIl commentatore politico americano al Bolshoi

6. Quella sottile somiglianza fra Trump e Elvis

imageL’immagine postata da Trump

(Massimo Gaggi) Mai notata la somiglianza tra Donald Trump ed Elvis Presley? Se non ve ne siete accorti siete disattenti. L’ex presidente sostiene, in un post sulla sua piattaforma, Truth Social, che da anni glielo dicono in tanti: «Somigli proprio a Elvis». E chiede ai fan cosa ne pensano. Per agevolarli pubblica anche una foto divisa a metà: mezzo volto suo, mezzo di Elvis.

Facile liquidarla come ennesima manifestazione narcisista di un megalomane che in passato si è già paragonato ad Abramo Lincoln, a George Washington e a Nelson Mandela. Ah, e anche alla Gioconda. Non per la somiglianza fisica, ma perché, ha spiegato, ogni volta che rivedi Mona Lisa ti pare più bella, non ti stanchi ma di guardarla. Proprio come capita ai fan che vengono più volte ai miei comizi, sempre più entusiasti.

Tutto ciò può apparire abbastanza ridicolo se pensiamo a Trump come a un leader tradizionale: un uomo di programmi politici e di governo. Ma The Donald è capo di un culto, non di un partito: se n’è accorto lui stesso per primo fin da quando, non ancora eletto presidente, ci spiegò che avrebbe potuto scende dalla Trump Tower in Fifth Avenue e sparare a un uomo e non avrebbe perso un voto. Lo confermano i suoi sostenitori che (incoraggiati da lui) lo paragonano al Messia: perseguitato dai giudici come Gesù Cristo. Crocifisso ma pronto a risorgere.

Nella logica trumpiana non c’è bisogno di grandi programmi politici: conta di più intrattenere con abilità da showman il pubblico dei comizi e fare sempre notizia — nel bene o nel male, non importa — per restare sempre al centro dell’attenzione. Così Taylor Swift che potrebbe schierarsi con Biden non è un problema perché gli può togliere voti, ma perché gli sottrae attenzione. Che Elvis sia uno dei tanti stratagemmi per riconquistarla?

Certo, con la foto divisa, Trump si è esposto al gioco di infiniti meme messi in rete da chi lo detesta: mezza faccia di Donald e mezza di Hitler, Mussolini, uno scimpanzé, perfino il lato B di un cavallo con la coda dai riflessi giallastri, come la chioma dell’ex presidente. Tutta roba buona per lo spettacolo.

7. Condannato a morte a Pechino lo scrittore australiano Yang, accusato di spionaggio
editorialista
di Guido Santevecchi

imageYang Hengjun, 58 anni, scrittore cinese naturalizzato australiano e condannato a morte

Secondo la giustizia cinese è una spia al servizio di un Paese straniero di cui non è stato rivelato il nome. Per il governo australiano è un sostenitore dei diritti umani che ha subìto un trattamento «sconvolgente e straziante». Di certo c’è solo che Yang Hengjun, cinese espatriato venticinque anni fa, diventato cittadino australiano, è stato condannato a morte oggi da un tribunale di Pechino.

Yang, 58 anni, blogger, autore di analisi sulla politica cinese, anche autore di romanzi a puntate ambientati nel mondo dell’intelligence, era stato arrestato nel gennaio del 2019 all’aeroporto di Guangzhou (Canton), appena arrivato da New York, dove era diventato visiting scholar alla Columbia University. Per più di due anni è stato detenuto a Pechino, a quanto risulta in condizioni durissime: cella larga meno di due metri, luce sempre accesa, interrogatori continui per spingerlo a confessare. Nel maggio del 2021 è stato processato a porte chiuse: un solo giorno per dichiararlo colpevole.

Poi di nuovo buio mentre la famiglia, gli amici, il governo australiano ne chiedevano la liberazione sostenendo la sua innocenza. Fino all’annuncio di oggi: condanna a morte con sospensione dell’esecuzione per due anni. Significa che se Yang si comporterà bene potrà sperare nella commutazione della pena in carcere a vita. Però, il sistema giudiziario cinese prende in considerazione «il pentimento» del condannato per mostrare clemenza ed evitargli il plotone d’esecuzione. Yang Hengjun, in una lettera alla famiglia ha invece giurato di battersi fino alla fine: «Non confesserò mai qualcosa che non ho fatto».

In questi cinque anni il governo australiano ha cercato di risolvere il problema per via diplomatica, trattando con Pechino. L’anno scorso il primo ministro Anthony Albanese era riuscito ad ottenere la liberazione di Cheng Lei, giornalista cinese naturalizzata australiana, dopo tre anni di detenzione per «rivelazione di segreti statali». Oggi, dopo l’annuncio della condanna a morte del blogger, la signora Penny Wong, ministro degli Esteri di Canberra ha convocato l’ambasciatore cinese per «comunicargli nei termini più forti» la protesta per un «procedimento giudiziario sconvolgente e straziante». Pechino replica che il processo è stato equo, condotto con rigore e la sentenza ben ponderata. In Australia, gli attivisti della diaspora cinese sostengono che le accuse di spionaggio contro Yang sono state fabbricate e che «è stato punito per la sua campagna a favore dei diritti umani e della democrazia in Cina».

È una vita avventurosa e piena di svolte oscure quella di Yang. Quando arrivò in Australia, nel 1999, disse di essere un ex funzionario del ministero degli Esteri cinese, circostanza smentita da Pechino. Però, il suo blog sulla politica internazionale della Repubblica popolare sembrava ben informato e gli diede una certa notorietà. Nel 2000 l’espatriato ottenne la cittadinanza australiana. Sul blog cominciò a pubblicare a puntate anche racconti di spionaggio, alternandoli a critiche dure nei confronti del regime cinese. Poi ammorbidì la sua posizione e si mise in affari: aprì un’agenzia online di «daigou» che acquistava all’estero beni di lusso su richiesta di acquirenti cinesi.

Nel 2011 tornò in Cina per un viaggio d’affari e scomparve. Riemerse dopo diversi giorni sostenendo di essere stato vittima di «un malinteso». Quale? A un amico in Australia Yang disse che prima di emigrare aveva lavorato come agente per il Ministero della sicurezza statale di Pechino: un’esperienza durata dieci anni, dal 1989 al 1999, con incarichi svolti a Hong Kong e Washington. Per scrivere le sue avventure di spionaggio avrebbe dunque attinto ad esperienze personali. Resta da chiedersi perché un uomo con il suo passato, reale o romanzato, abbia deciso di tornare in Cina. E perché la giustizia cinese abbia impiegato cinque anni per condannarlo a morte con sospensione della pena. Forse Yang è caduto in trappola in un gioco più grande di lui.

8. Il «mostro» dei Narcos

(Guido Olimpio) Tamaulipas, Messico. Un blindato fai-da-te usato dai narcos, faceva parte di un lungo convoglio dove c’erano diversi mezzi «corazzati» come questo. In gergo noti come «mostri». Un segno di forza da parte dei banditi ma anche la prova di come siano duri gli scontri tra gruppi rivali. Nelle stesse ore sono state diffuse foto di lanciagranate rudimentali e di ordigni sganciabili dai droni.

9. Messi resta in panchina e lo stadio di Hong Kong esplode di rabbia

imageMessi in tuta a Hong Kong

(Guido Santevecchi) Avrebbe dovuto essere una bella serata di sport, con esibizione di Leo Messi per la gioia dei tifosi di Hong Kong (e di una serie di sponsor). È terminata con fischi, urla, accuse di truffa e anche l’intervento del governo hongkonghese. Il campione argentino è rimasto in panchina, fermato da risentimenti ai muscoli di una gamba mentre il suo Inter Miami liquidava per 4-1 la squadra locale.

Si è attirato l’ira del pubblico anche David Beckham, co-proprietario del club americano. Mentre l’ex asso inglese cercava di spiegare le ragioni dell’assenza di Messi, che ha 36 anni e ormai deve amministrare le forze, è stato subissato da urla di «Refund!» (Rimborso) dai 38.323 spettatori che avevano pagato fino a 1.000 dollari di Hong Kong, 118 euro, per un biglietto.

Kevin Yeung, segretario alla Cultura, Sport e Turismo del governo hongkonghese, ha convocato una conferenza stampa per dire che alle autorità era stata assicurata la presenza in campo di Leo Messi per almeno 45 minuti. L’esibizione sarebbe dovuta servire anche a rilanciare l’immagine internazionale dell’ex colonia britannica. Invece, Messi si è visto solo in tuta, con espressione piuttosto annoiata, mentre dagli spogliatoi si avviava verso la panchina. La gente sugli spalti ha continuato a sperare in un suo ingresso anche solo per uno spicchio di gara. Invece niente.

«Solo quando mancavano 10 minuti alla fine ci hanno informato che Messi non sarebbe entrato, a causa di una infiammazione agli adduttori», ha detto il segretario Yeung. «Abbiamo chiesto ai dirigenti dell’Inter Miami di trovare una soluzione, mandare il campione in campo a fine partita per salutare i suoi tifosi di qui e ricevere il trofeo, ma non hanno fatto niente», ha detto l’uomo di governo. A questo punto le autorità di Hong Kong meditano di trattenere l’ingaggio di 15 milioni di dollari locali dato agli organizzatori dell’evento.

Segreti del Sud Ovest 49/ Il miraggio dei treni

(Guido Olimpio) Interstatale 10, zona di Benson, Arizona meridionale. Anni fa. Sono in auto quando sulla mia destra, in un’ara pianeggiante di terra «rossa» e punteggiata da cespugli, vedo in distanza alcuni locomotori immobili: gialli, inconfondibili, sono quelli della Union Pacific. Cerco di avvicinarmi ma non è possibile perché è recintato con un cartello che invita a stare alla larga. Mi sposto su una piazzola più elevata, così riesco a vedere meglio e «scopro» che le motrici sono moltissime, una attaccata all’altra. Si «perdono» nel deserto, allungandosi verso le montagne per miglia e miglia.

Cosa ci fanno qui? La risposta arriva da un altro automobilista che parcheggia accanto a me ed ha una macchina fotografica. È il deposito della compagnia ferroviaria — mi spiega — hanno radunato qui i mezzi a causa della crisi, ci sono meno merci da trasportare e allora li hanno messi al riparo nel clima asciutto della regione. Su Internet trovo dettagli. La colonna è composta da quasi 360 locomotori, «pachidermi» da 10 tonnellate in grado di trainare e spingere in tandem convogli lunghi oltre un chilometro.

Di recente sono tornato a esplorare la zona con Google Earth e ora i binari sono vuoti, sparite le motrici, svanite come in un «miraggio». Molte, probabilmente, sono tornate in servizio, un richiamo iniziato nel 2018, e altre le avranno spostate chissà dove.

La serie continua.

10. L’irresistibile Ballerina Farm
editorialista
di Irene Soave

imageBallerina Farm, 37 anni, e la sua numerosa famiglia

Questo breve pezzo è stato consegnato all’ultimo minuto: dovevo pur sempre documentarmi, e così ho passato quasi un’ora, quasi in trance, a perdermi nei reel Instagram di Ballerina Farm, al secolo Hannah Neeleman, trentatreenne dello Utah che sta partecipando, un livello dopo l’altro, alle selezioni per miss Mondo. Mentre si qualifica per Miss Mondo, la 33enne Hannah Neeleman fa anche altre cose: ha otto figli, tre maschi e cinque femmine l’ultima delle quali è arrivata al mondo due settimane fa; allatta la neonata e prepara da mangiare per gli altri sette, ma non surgelati: torta alla meringa, chicken parm, zucche ripiene di salsiccia, vellutate di almeno quattro verdure con sale integrale, pane fatto in casa con lievito madre e burro, e prepara a mano persino il lievito madre, e persino il burro.

So tutte queste ricette per averle guardate, come ipnotizzata, nell’ultima ora, fantasticando di vivere in campagna come lei, altro che lavorare in città! Le bambine la aiutano a cucinare, issandosi su sgabellini le più piccole; i maschi danno una mano al papà nella fattoria, e compaiono solo nei video in cui si mangia. Insomma, Hannah sarà pure una delle due miss americane che concorrono a miss Mondo, ma è soprattutto una tradwife, una moglie tradizionale, all’antica: cioè la somma di due archetipi femminili reazionari — la bellissima da trofeo, la donna di casa perfetta — che l’ultimo secolo di femminismo si è impegnato a smantellare, e ai quali quasi tutte siamo ormai contrarie.

Basta vedere la natalità che non si rialza: Hannah Neeleman ha non solo otto figli, ma anche nove fratelli e sorelle e un totale di 48 nipoti, noi sue spettatrici italiane una media di 1,2 figli ciascuna. Basta vedere con che entusiasmo siamo andate al cinema a vedere C’è ancora domani; basta vedere in quante ci siamo fatte piacere Barbie. Eppure Hannah Neeleman ha 8,8 milioni di seguaci, compresi i moltissimi che la criticano; suo marito Daniel, pur pilastro della vita» e centro del focolare, ne ha 400 mila, quasi tutti di riflesso: la fantasia che propone, cioè, fa presa su molti. E su molte. Cosa sarà a renderla irresistibile?

Grazie per averci seguito anche oggi. Buona settimana!

Andrea Marinelli


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