Sinner, dell’«orgoglio italiano» non fa parte la fedeltà fiscale

Caro Aldo,
diversamente dai quasi 60 milioni di connazionali diventati all’improvviso tennisti professionisti, non amo il tennis. Tuttavia, se il nostro Sinner decidesse di riportare il domicilio fiscale in Italia, diventerei subito un suo tifoso. Un gesto simile avrebbe un valore simbolico enorme, superiore a quello di tante misure governative a favore del recupero fiscale.
Vincenzo Russo

Caro Vincenzo,
Il mio primo ricordo sportivo è del 1971: dall’angolo di Nino Benvenuti vola un asciugamano bianco, per porre fine al massacro che stava perpetrando Carlos Monzon, assassino in senso tecnico (avrebbe poi ammazzato la moglie). In questi 53 anni, non ricordo un evento sportivo che abbia suscitato un’ondata di retorica più alta della vittoria di Sinner a Melbourne. Neppure il Mondiale del 1982. Sia chiaro: non mi riferisco ai colleghi che raccontano il tennis, con passione e competenza. Siccome sono bravi, da tempo avevano scritto che Sinner sarebbe diventato il numero uno. Non sono in discussione la sua impresa sportiva, né il suo eccezionale talento, che ci rincuora e ci dà speranza. Trovo invece discutibili sia la tempesta di melassa dei politici — nessuno escluso — sui social, sia certi titoli: «Il volto migliore del nostro Paese», «orgoglio italiano», «i grandi valori», «il suo esempio aiuta la società»… Perché se la valutazione non è sportiva, ma morale, allora il fatto che il nuovo portabandiera dello sport italiano abbia la residenza fiscale a Montecarlo, e quindi non contribuisca alla sanità, alla scuola, alla sicurezza, alle molte esigenze della comunità nazionale che rappresenta, dovrebbe farci dubitare non tanto di Sinner, quanto di noi stessi. Un popolo che in fondo si disprezza. Per tre volte in questi decenni mi sono trovato in una tempesta social (e non era melassa). Quando ho espresso qualche preoccupazione sulla dipendenza di molti ragazzi dai videogames. Quando ho scritto un libro sugli errori e sui crimini del Duce. E quando ho espresso una riserva sulla scelta di Sinner (perfettamente legale, fino a quando anche l’Italia non farà una legge da una riga come quella vigente in Francia: i cittadini della Repubblica italiana non possono prendere la residenza fiscale nel principato di Monaco). Sembra che ce l’abbia con lui, non è così, quindi allarghiamo il campo, ad esempio al candidato alla presidenza di Confindustria Antonio Gozzi che ha l’azienda in Lussemburgo: come può rappresentare gli interessi degli imprenditori italiani? Se la fedeltà fiscale — che a mio avviso dovrebbe vincolare le persone fisiche più ancora delle imprese — non è considerata una condizione necessaria per esercitare una carica o un ruolo pubblico, all’evidenza è perché consideriamo lo Stato un nemico o comunque una cosa altra da noi. Mi dicono che sia ipocrisia, moralismo, retorica. Facciamoci un giro insieme in una scuola disastrata, in una caserma dove carabinieri rischiano la vita per 1.500 euro al mese, in un reparto di oncologia infantile, di malati terminali, o di qualsiasi ospedale; poi mi dite chi è l’ipocrita, il moralista, il retore.

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«Ricordiamo tutte le falsità sulla battaglia di Lissa»

Non è vero che i marinai asburgici dopo la vittoriosa battaglia di Lissa avrebbero gridato: «Viva San Marco!» (Corriere, 17 gennaio). È una storiella divertente, che circola da un sacco di tempo, ma non c’è alcun documento che comprovi il fatto. Di certo i marinai austriaci provenienti dagli ex territori della Serenissima non avrebbero potuto evocare il protettore di Venezia dopo l’insurrezione del 1848-49 e dopo che, proprio a causa di questo, l’arciduca Massimiliano, comandante della flotta asburgica, aveva declassato il veneziano e promosso il tedesco a lingua di bordo. Su Lissa circola una quantità di leggende. Di qualcuna conosciamo pure l’origine. Per esempio quella circa la frase che il comandante austriaco, Wilhelm von Tegetthoff, avrebbe indirizzato in veneziano al proprio timoniere incitandolo a speronare l’ammiraglia italiana «Re d’Italia», cioè: «Ciò, Nane, ghe la femo?», al che il marinaio avrebbe risposto: «Sì, sior ghe la femo». La cosa è stata inventata dallo scrittore Pier Antonio Quarantotti Gambini in un articolo pubblicato nella rivista Omnibus del 26 febbraio 1938. «Queste due battute», affermava Gambini, «che sentii riferire da due marinai di Lussinpiccolo che le avevano udite dai reduci di Lissa, rivelano meglio di un intero trattato la situazione». Fonte di terza mano. Oltre a ciò, il comandante di una flotta non darebbe mai ordini a un marinaio, compito che spetta al comandante della nave. Probabilmente quell’invenzione serviva a rivendicare all’Italia la Dalmazia.
Alessandro Marzo Magno

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