Perché l'oro di Djokovic è una delle imprese più grandi dello sport e cosa ci insegna
Il serbo ha conquistato l’unica vittoria che gli mancava, l’oro olimpico a cui teneva moltissimo, visto l'attaccamento al suo Paese. La forza morale con cui ha conquistato questo traguardo è esemplare
Quando aveva otto anni, in un bosco sulle montagne della sua Serbia, Novak Djokovic incontrò un lupo. Si guardarono negli occhi per lunghi minuti. Poi cominciarono a indietreggiare. Infine il lupo girò la schiena, e se ne andò.
Quando nel secondo set l’arbitro ha chiamato fuori per sbaglio un servizio che aveva colpito il nastro ed era rimbalzato sulla riga, Djokovic si è precipitato verso la rete, pronto ad azzannare come un lupo. L’arbitro non ci ha capito più nulla e ha indicato un segno sbagliato. Carlitos Alcaraz ha capito che non se ne sarebbe usciti, e per non essere divorato ha concesso a Djokovic di ripetere il servizio. Lui l’ha applaudito e l’ha indicato, come a dire: sto applaudendo te, non l’arbitro.
L'incontro col lupo la sua prima dimostrazione di potere
Novak considera quell’incontro con il lupo una prova iniziatica. La sua prima vittoria in un duello mentale, in una lotta psicologica. La sua prima dimostrazione di potere sulle anime, propria e altrui: «Nulla avviene per caso. Da allora il lupo è il mio animale totemico» (il racconto dell’incontro con il lupo si era mangiato metà dell’ora concordata per l’intervista. Giustamente, la sua manager disse: «Basta, ora Nole deve andare ad allenarsi». Lo guardai, lui fece un gesto come per dire: andiamo avanti. Djokovic parlò per quasi due ore in italiano, senza sbagliare un verbo; e parlò non di volée e di smash, ma delle bombe su Belgrado e della sua detenzione in Australia. Avrebbe potuto farlo anche in inglese, in francese, in spagnolo, in tedesco, oltre ovviamente alla sua lingua madre).
Perché ha vinto contro Alcaraz
Oggi qui a Parigi Novak Djokovic ha compiuto una delle più grandi imprese nella storia dello sport. Ha conquistato l’unica vittoria che gli mancava, l’oro olimpico, a cui teneva moltissimo, visto il suo attaccamento patria serba (che però anche nel suo caso non si spinge sino alla fedeltà fiscale). A 37 anni ha battuto un avversario di quindici anni più giovane, più forte fisicamente e forse anche tecnicamente. Ha vinto perché ha giocato meglio i punti importanti: nel primo set ha annullato otto palle break su otto. Ha vinto perché ha azzeccato la tattica: accorciare gli scambi, aggredire Alcaraz, uno che ama comandare il gioco e detesta essere attaccato. Ma ha vinto soprattutto perché è stato il più forte di testa e di anima. Il lupo serbo rincula quando deve, poi attacca e azzanna senza pietà.
Una vittoria che è una lezione per tutti noi
Dicono che non sia simpatico. Ma un campione, come un leader politico, non deve essere simpatico. I campioni simpatici o sono dei miracoli come Rafa Nadal, o sono costruiti, finti, gestiti (non sempre bene). Un campione sa essere cattivo, non nel senso di mettere le dita negli occhi all’avversario o di non soccorrere gli uccellini feriti; nel senso della ferocia agonistica, che non è il contrario della bontà d’animo e non è sinonimo di scorrettezza. In passato a Djokovic è accaduto di sbagliare: rifiutando di vaccinarsi; esagerando con l’aggressività in campo o con i break «sanitari». Eppure la forza morale con cui ha conquistato anche questo traguardo è una lezione per tutti noi. Il pianto dirotto, l’abbraccio a moglie e figli, la bandiera serba agitata contro il vento di Parigi sono il segno che in lui è vivo il ragazzo cresciuto sotto le bombe, che voleva dimostrare al mondo che «ci sono anche serbi buoni»; ed è vivo il bambino che teneva testa al lupo, e lo è diventato.