Il ministro serbo Djuric: «Amici di Putin? Lo siamo anche dell’Ucraina. In Kosovo una crisi umanitaria»

diFrancesco Battistini

Il volto nuovo della politica serba Marko Djuric in Italia per parlare di Ucraina, ma pure di migrazioni sulla rotta balcanica. E dell’ingresso del suo Paese nell’Unione europea

Il ministro serbo Djuric: «Amici di Putin? Lo siamo anche dell’Ucraina. In Kosovo una crisi umanitaria»

Il Ministro degli Affari Esteri della Repubblica di Serbia, Marko Djuric

ROMA – Ministro Djuric, la Serbia è fra i migliori amici della Russia. La vostra posizione può aiutare?
«Per il momento, noi non abbiamo un ruolo attivo in questo. Abbiamo il cuore spezzato, come gli altri europei, da ciò che sta accadendo in Ucraina. Sia i russi che gli ucraini sono nazioni amiche, sono fratelli. E vogliamo vedere la fine di questa guerra».

Eppure, uno dei suoi primi atti è stato ricevere a Belgrado - a sorpresa - la moglie del presidente ucraino Volodymyr Zelensky. In Serbia, un Paese che non ha aderito alle sanzioni contro Mosca...
«È venuta col ministro Kuleba. E poi abbiamo partecipato alla conferenza in Svizzera sull’Ucraina, dove abbiamo aderito alla dichiarazione finale. Siamo sempre interessati a sfruttare ogni opportunità disponibile, per sostenere idee che possano porre fine alla guerra».

Il volto nuovo della politica serba si chiama Marko Djuric, 41 anni, appena nominato ministro degli Esteri. Ex «ragazzo terribile» di Otpor, l’organizzazione giovanile che a Belgrado si ribellava a Milosevic. Ex «ministro» per il Kosovo serbo, ex ambasciatore negli Usa, ora a Roma per una delle sue prime missioni all’estero. È venuto a parlare d’Ucraina, ma pure di migrazioni sulla rotta balcanica. E dell’ingresso della Serbia – chissà quando - nell’Unione europea. A rivendicare un ruolo: «Con l’Italia, siamo ottimi amici e partner. Il risultato è un significativo effetto stabilizzante per tutta la regione. Voi potete contare su di noi per porre fine all’immigrazione clandestina. La scorsa settimana, la Serbia ha firmato un accordo con Frontex: siamo pienamente pronti a cooperare con le forze di sicurezza italiane, per affrontare congiuntamente le questioni migratorie. È un problema che condividiamo».

E l’ingresso nell’Ue? La sala d’attesa è lunga. Quanto ci vorrà?
«Accettando la Serbia come membro, l’Europa ha molto da guadagnare. Perché è un Paese con un’economia stabile: la nostra crescita quest’anno è del 4,7 per cento. Nell’ultimo decennio, la Serbia ha più che raddoppiato il Pil. E ha abbassato il debito pubblico dal 75 al 49 per cento. Stiamo costruendo dieci nuove autostrade e due ferrovie ad alta velocità. Senza chiedere un soldo ai contribuenti della Germania, dell’Italia o d’altri Paesi europei. Quando la Serbia entrerà nell’Ue, l’Europa sarà più forte grazie a un’economia serba in forte sviluppo. E questo renderà tutta la regione balcanica più stabile, ancorata nella comunità euroatlantica».

Vi sentite scavalcati dalla corsia preferenziale concessa all’Ucraina o alla Moldova?
«Noi sosteniamo tutti gli aspiranti candidati all’Ue. Alla Serbia non interessa diventare una Porto Rico d’Europa, con accordi asimmetrici e senza diritto di voto: No Taxation without Representation, dicono in America. Noi cerchiamo d’avere pieno diritto di voto e un posto al tavolo delle decisioni, come gli altri».

Ma a Belgrado la voglia d’Europa è la stessa di vent’anni fa?
«Da ragazzo, ho preso parte alle proteste che rovesciarono il regime di Milosevic. Non posso credere che, venticinque anni dopo, non siamo ancora diventati membri Ue! La colpa è anche nostra, in parte, e su questo non ci sono dubbi. Cresce la frustrazione e ciò, chiaramente, mette in discussione la credibilità del processo d’allargamento. Il nuovo governo serbo ha, come priorità fondamentale, attuare le riforme entro il 2027: per aderire all’Ue, soddisferemo i prerequisiti legali, politici e sociali per diventare un membro a pieno titolo. Nell’economia, stiamo andando meglio di alcuni Stati membri. Alla fine sarà una questione politica, se l’Europa ci vorrà. Noi ci sentiamo parte dell’Europa. Io non mi sento straniero, Italia e Serbia sono la stessa famiglia. Ero ambasciatore negli Usa e lì era difficile spiegare che a un’ora d’aereo dall’Italia c’è un Paese che è ancora extraeuropeo».

Da ex ambasciatore, sarà molto attento a quel che accade a Washington: Donald Trump, quattro anni fa, vi fece firmare anche un memorandum sul Kosovo…
«Trump e il suo inviato, Richard Grenell, hanno sempre avuto una buona visione dei problemi balcanici: utilizzano l’economia per colmare il divario fra Serbia e Kosovo. Che sia una buona idea, lo dimostra il fatto che la visione di Trump sia stata accettata anche dall’amministrazione Biden. Spero di vedere dopo le elezioni americane, indipendentemente da chi vinca, un impegno politico americano di alto livello nei Balcani».

Lei si è occupato a lungo della questione kosovara. Ma è possibile che dopo 25 anni siamo ancora fermi? Sembra ormai una pace impossibile, come quella fra israeliani e palestinesi…
«Penso che sia molto importante il modo in cui la nuova Commissione europea definirà il proprio mandato per affrontare questo problema. La prossima rappresentante europea per la politica estera, Kaja Kalas, avrà un’enorme responsabilità nel decidere se impegnarsi direttamente o, invece, nominare un rappresentante speciale. C’è un accordo di Bruxelles del 2013 che non è mai stato attuato nella parte fondamentale, quella riguardante la creazione di comuni a maggioranza serba, e questo mentre noi serbi abbiamo smantellato la magistratura, la polizia e altre strutture. Abbiamo anche accettato un prefisso telefonico del Kosovo, il +383. Nonostante questo, non è mai stata istituita la comunità dei comuni serbi. Peggio: negli ultimi dodici mesi, il governo kosovaro di Kurti ha proibito l’import di tutti i beni serbi. Nemmeno una lattina di Coca-Cola prodotta in Serbia può più entrare in Kosovo! E tutti i pagamenti serbi al Kosovo, cosa gravissima, sono stati bloccati. Gli stipendi, i fondi pensione degli ospedali e delle scuole, in dieci comuni serbi su 38, sono completamente bloccati. Questo crea un’enorme crisi umanitaria per la comunità serba. E la conseguenza è che il 15 per cento dei serbi, solo nell’ultimo anno, ha lasciato il Kosovo. Se non facciamo qualcosa, e subito, il Kosovo non sarà mai più multietnico. Quel che accade lì, è lo specchio esatto di ciò che accadde – al contrario - sotto il regime di Milosevic. Ieri erano gli albanesi, oggi i sono serbi ad abbandonare la polizia per gli abusi subìti. Sa che duecento giudici hanno lasciato il Kosovo? Ci sono molti arresti extragiudiziali. L’anno scorso, Josip Borrell e Antony Blinken hanno twittato su questi temi, ma poi non s’è stato fatto nulla per impedire le sopraffazioni. Non penso che la comunità internazionale abbia investito miliardi e rischiato la vita per avere, in Kosovo, un Kurti che è l’immagine riflessa di Milosevic».

Avete appena firmato un accordo con l’Ue per lo sfruttamento «green» della miniera di litio a Jadar, che da sola può soddisfare il fabbisogno mondiale dell’11 per cento delle batterie elettriche per auto. Dovevate stringerlo con Pechino, e invece… È una risposta a chi vi accusa d’essere il cavallo di Troia dei cinesi in Europa?
«Abbiamo preso una decisione strategica firmando il protocollo d’intesa con l’Ue, sullo sfruttamento d’una risorsa minerale strategica come il litio. Ma non solo per il litio. Utilizzeremo queste risorse in partnership con gli alleati europei. Il presidente Vucic ha appena inaugurato lo stabilimento per la produzione della Fiat Panda Grande: sarà la prima produzione in assoluto di veicoli elettrici. Il marchio italiano è da tempo nel nostro Paese, dove si trova uno dei grandi giacimenti mondiali di litio. La Serbia però, vorrei precisare, gode sempre di ottime relazioni con la Cina: a luglio, abbiamo concluso un accordo sul libero scambio. Questo significa che Belgrado può contribuire a riequilibrare i commerci tra Europa e Cina, perché noi utilizzeremo questo accordo per accedere meglio al loro mercato. Le nostre relazioni politiche sono molto buone, anche se voglio sottolineare che il nostro debito con la Cina è solo il 2,5 per cento del debito estero complessivo: molto al di sotto del livello di molti Paesi europei».

Ma perché siete tanto amici di Putin? Qualche giornale, e forse anche qualche leader, sospetta Vucic d’essere «un agente russo»…
«È curioso. Da un lato alcuni media regionali accusano il presidente Vucic d’essere molto vicino ai russi - il che è infondato -, mentre altri media l’accusano di non avere ancora parlato con Putin dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina. Basta controllare i fatti e vedere che la Serbia ha una posizione molto coerente e di principio nei confronti di Kiev. Prendendo posizione a sostegno dell’integrità territoriale dell’Ucraina, abbiamo lavorato costantemente per sostenere i principi della Carta Onu. Abbiamo fornito tanti aiuti umanitari al popolo ucraino, non solo soldi, e abbiamo fatto molto più di altri. Perdipiù, voglio sottolineare che l’Ucraina riconosce il Kosovo come parte integrante della Serbia, e che anche la Russia lo riconosce: per noi, dunque, sia l’Ucraina che la Russia sono entrambe nazioni cristiane, ortodosse e tradizionalmente amiche».

Siete coinvolti anche nella difesa a oltranza della minoranza serba in Bosnia, che rifiuta d’obbedire alle indicazioni Onu. E la Bosnia vi accusa di soffiare sul fuoco…
«Se posso permettermi, i serbi in Bosnia non sono una minoranza. Ci sono tre gruppi etnici uguali che formano lo Stato: i musulmani, i croati e i serbi. Si parla molto delle tendenze irredentiste dei serbi, ma non della pericolosa tendenza a trasformare i serbi e i croati in minoranze. Noi siamo contrari a questo, mentre sosteniamo l’integrità della Bosnia-Erzegovina».

Nell’ultima campagna elettorale serba, il dibattito è stato ancora sui crimini di guerra degli anni ’90. E ci si è domandati se a Srebrenica ci sia stato o no un genocidio. E Vucic è andato ripetendo che c’è un doppio standard, nel giudicare quei fatti. Ma perché in Serbia, trent’anni dopo, il passato non passa mai?
«Nel mio primo intervento al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ho proposto una risoluzione che trattasse non solo la questione del genocidio, ma il futuro globale dei Balcani. Includendo la condanna di tutti i crimini di guerra e definendo una sorta d’agenda sul futuro, che tratti della costruzione d’infrastrutture, dell’apertura a un flusso libero di beni, di persone e di servizi. Per esempio, vorremmo costruire una nuova ferrovia ad alta velocità da Belgrado a Sarajevo. Con fermate a Bijeljina, che è a maggioranza serba, ma anche a Tuzla e a Zenica, che sono città a maggioranza musulmana. È in questo modo, penso, che le comunità possono convivere meglio. Credo che sia stata un'ottima decisione quella di concedere lo status di candidato Ue anche alla Bosnia-Erzegovina: per molti politici, è l’opportunità di concentrarsi su un’agenda positiva, di costruire qualcosa. Poi, certo, va rispettata la necessità di commemorare le vittime di tutti i crimini, compreso l’orrore di Srebrenica, che spicca per le sue dimensioni. Non penso però sia utile forzare questo ricordo senza il consenso di tutt’e tre le etnie in Bosnia. Questo consenso non c’è stato e, per quanto orribile sia stato quel massacro, le migliaia di vittime a Srebrenica sono solo una parte delle decine di migliaia di vittime in tutta la guerra in Bosnia. Anche le vittime serbe, anche i croati. È su questa memoria condivisa, che serve il consenso. In Ruanda è andata così: prima hanno ottenuto il consenso di tutti. E poi sono passati oltre».

24 luglio 2024 ( modifica il 24 luglio 2024 | 00:45)

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