Agricoltura, così l’Europa tradisce l’ambiente
L’ambiente sarà il campo su cui probabilmente si giocherà molta della campagna elettorale per le elezioni europee. Parole di un mio articolo uscito a luglio 2023 su queste colonne, a seguito dell’approvazione da parte del Parlamento europeo della proposta di legge sul ripristino della natura (con l’obiettivo di sanare gli habitat degradati e contribuire al mantenimento della biodiversità e alla mitigazione della crisi climatica).
A distanza di mesi tutto ciò si sta verificando: l’ambiente è diventato terreno di scontro politico, anziché interesse universale. La legge sul ripristino della natura è bloccata in sede di Consiglio dell’Ue perché i ministri non riescono a raggiungere un accordo (con l’Italia tra gli osteggiatori), mentre le proteste degli agricoltori hanno portato la Commissione a fare dietrofront sui punti cardine del Green Deal in tema di produzione alimentare.
Mi riferisco all’abolizione della proposta di legge che limitava l’uso dei pesticidi e alla rimozione dell’obbligo di lasciare a riposo il 4% dei terreni agricoli per favorirne la rigenerazione. Ma anche al rinnovo dell’autorizzazione all’uso del glifosato, controverso erbicida dai possibili effetti cancerogeni.
Queste decisioni fanno gola alla lobby dell’agricoltura convenzionale, che gestisce la terra come un input di produzione di un processo industriale. Più superficie coltivata, uguale più resa, non importa se sono necessari ingenti quantità di pesticidi, fertilizzanti e acqua. Anzi, forse meglio perché si alimenta il circolo vizioso che rende gli agricoltori dipendenti dalle multinazionali che controllano il mercato dei semi e della chimica di sintesi, le quali vedono i loro portafogli gonfiarsi.
Questo tipo di agricoltura, che è tra i settori più climalteranti, non è più compatibile con l’attualità. Nonostante questo, beneficia della maggior parte dei sussidi agricoli europei, allocati in base alla dimensione delle aziende e non in virtù di pratiche sostenibili come l’agricoltura biologica.
Le recenti azioni intraprese dall’Europa sono a mero beneficio dell’agroindustria e dei politici che vogliono vincere le elezioni. La posta in gioco però è troppo alta: si tratta del contrasto alla crisi climatica, da cui il benessere di noi cittadini dipende in maniera indissolubile.
Dove vivremo quando saremo 10 miliardi di persone sulla Terra e gli ecosistemi saranno degradati, quando l’aria sarà troppo contaminata, l’acqua inquinata da residui industriali e la siccità sarà tale da non riuscire a soddisfare il fabbisogno idrico necessario alla sopravvivenza?
Pensiamo poi ai suoli: oggi l’erosione è la principale fonte di deterioramento per l’80% dei campi agricoli. Se non la arrestiamo quali terre lavoreranno gli agricoltori? E quale cibo mangeremo?
Siamo di fronte a una crisi di sicurezza e di sovranità alimentare, non nel senso di necessità di aumentare la produzione, ma di rischi causati dall’emergenza climatica. Rischi che trovano una attenuante in un’agricoltura che lavora in armonia con la natura. In un ambiente sano e biodiverso i raccolti saranno più resilienti alle malattie e agli effetti del cambiamento climatico. Per sfamare più persone non serve aumentare la produzione, ma bisogna agire sulla riduzione dello spreco e sull’accessibilità al cibo.
Una politica che di fronte agli effetti crescenti della crisi climatica si comporta di forma controintuitiva, riducendo le regole a tutela dell’ambiente, dimostra la sua impreparazione e tradisce le promesse di essere leader globale per il clima. Ciò che dovrebbe invece fare è favorire una giusta transizione ecologica a partire dal comparto agricolo, che incentivi pratiche virtuose e rigenerative e che metta davvero al centro i contadini e i loro bisogni.
Uno dei temi caldi delle proteste era il prezzo. I redditi agricoli dell’Unione sono del 40% inferiori rispetto a quelli non agricoli. I produttori spesso vendono sottocosto a imprese di trasformazione e grande distribuzione (Gdo). Gdo che in Italia vende il 75% del cibo, con ricarichi fino al 300%, mentre all’agricoltore rimane meno del 7%. Il silenzio di questo comparto, principale responsabile dei prezzi finali dei beni, è assordante (complice la politica).
Tutto questo mentre i prezzi al consumo aumentano, anche per la crisi climatica che danneggia le colture (nell’estate del 2022, la più calda della storia, i prezzi del cibo sono aumentati fino allo 0,93%) e il potere d’acquisto delle famiglie si erode.
Nelle fasi di emergenza, anziché promuovere il dialogo e una transizione giusta si guarda al passato e a false contrapposizioni. Alla minaccia di guerra si risponde con le armi, annientando la spinta pacifista. Alla protesta degli agricoltori si contrappone la lotta ambientalista. Purtroppo non vedo nessuno che si batta per una visione politica del futuro.