Cop28 e Gaza: due successi per la diplomazia araba, protagonista globale I punti chiave

Una protagonista sempre pi� cruciale delle relazioni internazionali � la diplomazia araba. In questi ultimi giorni ha messo a segno due vittorie d’immagine. Una � l’esito della Cop28 a Dubai, dove i padroni di casa sono riusciti a risolvere uno scontro sul documento finale riguardo al superamento delle energie fossili. L’altro successo � la forte presa di distanza dell’amministrazione Biden nei confronti del governo israeliano sul futuro di Gaza. In entrambe i casi una nuova generazione di leader arabi – in particolare i sauditi e gli emiratini – ha saputo consolidare il proprio ruolo.

Sulla lotta al cambiamento climatico gli arabi hanno esercitato una mediazione che soddisfa un po’ tutti, promettendo una de-carbonizzazione sostanziale e al tempo stesso realistica. Sulla guerra di Gaza � ormai chiaro che l’America vuole salvaguardare il suo rapporto con i governi arabi moderati quasi quanto tiene all’alleanza con Israele; pertanto � disposta a esercitare tutta la sua influenza per imporre a Netanyahu o ai suoi successori la creazione di uno Stato palestinese che soddisfi le condizioni poste dal fronte arabo-sunnita moderato.

La Cop28 ha riunito 190 Paesi sotto la presidenza degli Emirati arabi uniti. In conclusione ha finito per adottare un linguaggio pi� drastico sulla necessit� di ridurre i consumi di energie fossili, rispetto a quanto sembrava possibile appena 48 ore fa. L’accordo finale parla nella versione inglese di �transitioning away from fossil fuels in energy systems, in a just, orderly and equitable manner�. La concessione che sembrava impossibile, � stata offerta in extremis dal sultano Al Jaber, che cumula gli incarichi di ministro dell’Industria degli Emirati, inviato speciale per il cambiamento climatico, e presidente della compagnia petrolifera nazionale di Abu Dhabi. Al Jaber dirigeva i lavori della Cop28 e la svolta finale � stata opera sua. Ha soddisfatto un fronte ambientalista dei paesi sviluppati includendo l’obiettivo di una transizione �in uscita� dalle energie fossili. Ha accontentato il Grande Sud globale precisando che deve avvenire in modo �giusto, equo, ordinato�, quindi graduale e compatibile con le necessit� di crescita dei paesi emergenti. Altrove, nelle 11.000 parole del testo finale, appaiono altri obiettivi audaci come quello di triplicare l’energia prodotta da sole, vento e altre rinnovabili. Tutto questo � positivo visto che fino all’ultimo sembrava escluso ogni accenno al ridimensionamento delle energie fossili.

Il pragmatismo arabo non si � arroccato in una difesa a oltranza di gas e petrolio; ha avuto comunque la meglio nella sostanza. Non si parla di un abbandono totale, e il ridimensionamento di petrolio e gas viene riferito ai �sistemi energetici�: implicitamente restano fuori utilizzi di altro tipo come la produzione di fertilizzanti per l’agricoltura o tutte le derivazioni petrolchimiche come medicinali, apparecchiature biomediche, o le tante plastiche incorporate anche nelle auto elettriche. Allo stato attuale della tecnologia non ci sono sostituti per le energie fossili in questi settori.

Un obiettivo di abbandono in tempi rapidi delle energie fossili sarebbe risultato inaccettabile non solo per chi le produce (come i paesi arabi) ma anche per i consumatori poveri. Nel Sud del pianeta le rinnovabili faticano a generare il 5% del fabbisogno; per molti paesi il carbone resta una materia prima a buon mercato per portare la luce nei villaggi. Si aggiunge un’antica diatriba su quali siano le �rinnovabili�: per il governo cinese il nucleare rientra a pieno titolo in questa categoria.

A mitigare la portata di questa Cop28 c’� appunto il ruolo della Cina. Il documento finale approvato a Dubai non � vincolante per nessuno. Tantomeno per Pechino, che ha sempre rifiutato di sottoporsi a regimi di controlli in questo campo. Xi Jinping ha consolidato il ruolo della Repubblica Popolare come �modello� per gli altri paesi emergenti, con questo approccio: riconosce l’emergenza climatica in tutta la sua gravit� e afferma la necessit� di mitigarla; investe in modo massiccio nelle rinnovabili al punto da aver conquistato una posizione dominante nella produzione di auto elettriche, batterie, pannelli solari, pale eoliche, e molti dei componenti che entrano in queste tecnologie; investe pi� di ogni altro paese al mondo nel nucleare (55 centrali ad oggi) che esporta anche all’estero; al tempo stesso la Cina rimane e rimarr� molto a lungo la pi� grossa consumatrice e importatrice di carbone, petrolio e gas; continuer� anche a costruire centrali elettriche a carbone e a gas sia sul proprio territorio sia in altri paesi del mondo. L’orizzonte temporale entro il quale Pechino prevede di cominciare ad abbassare le proprie emissioni carboniche � il 2060. Neppure questo � un obiettivo vincolante. Comunque da qui a l�, qualsiasi cosa faccia l’Occidente per ridurre le proprie emissioni, avr� un impatto limitato rispetto all’aumento di CO2 generata da Cina, India e il resto degli emergenti. La domanda cinese di energie fossili continua ad essere cos� dominante, che spesso � la spiegazione numero uno per l’andamento del mercato. Per esempio: dietro i recenti cali nelle quotazioni del greggio c’� in buona parte la debolezza dell’economia cinese. Un rallentamento della crescita cinese come quello in atto, nei fatti contribuisce a ridurre le emissioni carboniche pi� della firma di un documento alla Cop28. Il ruolo del sultano Al Jaber � stato quello di �navigare� fra tutti questi condizionamenti del mondo reale.

L’altro terreno su cui la diplomazia araba espande la sua influenza � la guerra di Gaza. Dire che tra gli Stati Uniti e Israele si sta consumando una crisi senza precedenti forse � esagerato, perch� i rapporti furono pessimi anche tra Barack Obama e Benjamin Netanyahu. Oggi per� la divergenza tra i due alleati avviene sullo sfondo di una guerra terribile, per il bilancio di vittime la pi� tragica tra quelle che hanno insanguinato quella terra. Biden di fatto si � avvicinato molto alla �linea araba�, almeno sul futuro della Palestina. Ferma restando la condanna di Hamas e il diritto che l’America riconosce a Israele di distruggere questa organizzazione terroristica, Biden rimprovera a Netanyahu almeno due cose. Primo, di condurre le operazioni militari a Gaza in un modo che rischia di isolare Israele nel mondo, alienandogli la solidariet� anche di paesi europei. Secondo: di non avere un piano praticabile per il futuro di Gaza. Per Biden va coinvolta nel governo della Striscia l’Autorit� palestinese, sia pure in una versione profondamente rinnovata rispetto all’attuale che governa (per modo dire) la Cisgiordania con capitale a Ramallah. Gli americani premono sul presidente dell’Autorit� Abu Mazen perch� si dimetta, organizzi nuove elezioni, prenda misure contro la corruzione, e rafforzi le proprie forze di polizia. Un’Autorit� palestinese riformata, rinnovata, rilegittimata e rafforzata, potrebbe governare Gaza con l’appoggio politico e finanziario di Arabia Saudita, Emirati, Egitto, Giordania, forse anche Qatar, Bahrain, Kuwait, Marocco. Questo � lo scenario a cui lavora la Casa Bianca, anche per salvare la possibilit� di un riconoscimento diplomatico tra Israele e Arabia saudita. Questo tipo di piano ha molti punti in comune con le richieste di Riad e Abu Dhabi; pochi con la posizione di Netanyahu.

Su ciascuno degli attori pesa la politica interna. Biden ha un partito democratico che si � spostato nettamente a favore dei palestinesi, soprattutto fra le giovani generazioni (anche se questo gli coster� consensi nella comunit� ebraica). Inoltre non vuol chiudere il suo primo mandato con un Medio Oriente in fiamme, insanguinato e sconquassato dalle manovre destabilizzanti dell’Iran.

Netanyahu guarda anche lui alle prossime elezioni. � ancora convinto di poter salvare la propria carriera politica. Pensa che la strage di Hamas del 7 ottobre abbia spostato ulteriormente a destra l’elettorato israeliano, rendendolo ancora pi� diffidente di prima verso ogni sorta di concessione ai palestinesi, inclusa l’Autorit�. Netanyahu forse scommette anche su un ritorno del suo amico Donald Trump alla Casa Bianca. Su quest’ultimo punto, va ricordato per� che fu l’Amministrazione Trump a costruire gli accordi di Abramo (disgelo tra Israele e vari paesi islamici tra cui gli Emirati), e sotto Trump l’intesa tra l’America e l’Arabia saudita fu robusta.

Nel mondo arabo, pur non essendoci elezioni da affrontare, il vincolo dell’opinione pubblica esiste. Come ha notato Thomas Friedman sul New York Times, quando l’Arabia saudita il 28 ottobre ha ospitato il festival di spettacolo e sport chiamato Riyadh Season, � stata attaccata da molti influencer sui social media dall’Egitto al Kuwait per aver offeso il lutto di Gaza. Prima del 7 ottobre un sondaggio effettuato tra la popolazione saudita sul riconoscimento dello Stato d’Israele e la normalizzazione delle relazioni aveva registrato il 70% di approvazioni; oggi lo stesso sondaggio non verrebbe ripetuto per non esporre alla luce del sole il drammatico cambiamento di atmosfera tra i sudditi del principe Mohammed bin Salman.

La diplomazia araba sta dispiegando il proprio peso. Gli Emirati, per esempio, ospitano una base aerea americana con 5.000 militari e hanno gi� rapporti con Israele da tre anni. Sono un intermediario essenziale, quanto il Qatar. Insieme con i sauditi potrebbero sostenere la massima parte dei costi di ricostruzione di Gaza dopo la guerra. L’ambasciatrice degli Emirati all’Onu, Lana Nusseibeh (la cui famiglia ha origini palestinesi), ha esplicitato le condizioni: �Vogliamo vedere una soluzione praticabile basata su due Stati, un percorso serio per arrivarci, altrimenti non saremo pienamente impegnati nella costruzione, e anche i nostri rapporti con Israele ne risentiranno�. Biden sottoscrive.