Biden accusa India e Giappone: «Xenofobi». Perché?
L’ultimo incidente diplomatico creato da Joe Biden investe due alleati strategici degli Stati Uniti: India e Giappone. Il presidente americano ha accusato entrambe queste nazioni di “xenofobia”, creando irritazione in paesi che la sua stessa Amministrazione considera decisivi per contenere l’espansionismo della Cina. Stavolta però non si è trattato di una gaffe, di uno scivolone verbale involontario. Biden ha detto proprio quello che voleva dire, anche se i suoi collaboratori sono impegnati in un’azione di contenimento dei danni diplomatici.
La frase incriminata, Biden l’ha pronunciata nel corso di un ricevimento per la raccolta fondi della sua campagna elettorale. Il presidente stava cercando di difendere il suo bilancio sull’immigrazione, tema che è considerato uno dei suoi punti deboli. Il suo mandato è stato segnato da un forte aumento di ingressi illegali alla frontiera, al ritmo di due milioni all’anno di clandestini. Questo afflusso ha creato tensioni e divisioni all’interno dello stesso partito democratico. Alcune grandi città governate dai democratici, come New York e Chicago, soffrono gravi crisi di bilancio e problemi di sicurezza legati al boom di stranieri illegali.
Per difendere il proprio operato, Biden ha detto che paesi come India e Giappone «hanno difficoltà economiche perché sono xenofobi, loro non vogliono immigrati, come la Cina e la Russia». La frase è stata ampiamente riportata sui media e ha costretto la Casa Bianca a una serie di precisazioni. John Kirby, portavoce del National Security Council, è dovuto intervenire per spiegare che Biden non intendeva insultare dei paesi amici e alleati, bensì voleva solo sottolineare i vantaggi che l’America ricava dal suo “Dna”, per il fatto di essere “una nazione di immigrati”. Kirby ha aggiunto che India e Giappone capiscono questo tipo di ragionamento e “sanno quanto valore Biden assegna alla loro cooperazione”.
La Casa Bianca quindi ha tentato di spegnere l’incendio riferendosi a una tesi sui vantaggi dell’immigrazione: l’America avrebbe una marcia in più rispetto a molte altre nazioni, perché i flussi migratori le consentono di avere ancora una crescita demografica mentre altrove prevale la denatalità.
Tuttavia quell’accusa di “xenofobia” rivolta a India e Giappone – per di più equiparate a Cina e Russia con cui i rapporti sono segnati da antagonismo – rischia di rimanere come una macchia. Anzitutto, non è chiaro perché Biden abbia attribuito a India e Giappone delle economie deboli. Quella indiana nel 2023 ha segnato la crescita più forte tra tutte le grandi economie mondiali (+7%), sorpassando per velocità di aumento del Pil la Cina e gli Stati Uniti. Il Giappone ha una crescita più bassa, però esibisce indici di benessere eccellenti, generalmente superiori all’America (per esempio gli indicatori dello sviluppo umano o della felicità usati dalle Nazioni Unite). In India il premier Narendra Modi sta per raccogliere con ogni probabilità un successo elettorale e un terzo mandato, anche perché generalmente la sua gestione dell’economia raccoglie consensi. Il Giappone gode di livelli di sicurezza e ordine pubblico invidiabili, non conosce fenomeni di homeless, criminalità e tossicodipendenze di massa paragonabili agli Stati Uniti. Se Biden voleva confrontare l’America con nazioni in difficoltà e mal governate, poteva cercare degli esempi più adatti. E poteva evitare di offendere due popoli che considera indispensabili nella sua strategia delle alleanze. Senza trascurare il fatto che negli Stati Uniti, proprio in virtù dell’immigrazione, esiste una grossa diaspora indiana – spesso nazionalista e favorevole a Modi – di cui Biden potrebbe alienarsi le simpatie.
Anche sulla questione specifica delle politiche migratorie, l’uscita di Biden solleva molte riserve. L’India non è un paese con le frontiere sigillate, anche se storicamente ha più emigrazione che flussi in entrata. È probabile che Biden avesse in mente alcune misure recenti e controverse del governo Modi, che sono considerate discriminatorie contro la minoranza musulmana. Queste misure sono oggetto di vivaci polemiche all’interno dell’India stessa e vengono contestate fra l’altro dall’opposizione di sinistra (il partito del Congresso della famiglia Gandhi). Tuttavia il nazionalismo induista di Modi va analizzato nell’ambito di una storia millenaria: i rapporti fra le due comunità hanno alternato momenti felici e fasi terribili, alcune dinastie islamiche furono colpevoli di intolleranza e persecuzioni contro gli induisti; infine dalla Partizione del 1947 l’India vive sotto la minaccia permanente del terrorismo islamista sobillato dal vicino Pakistan.
Il Giappone è un caso diverso. Come altre società asiatiche d’impronta culturale confuciana (Cina, Corea), il Giappone dà molta importanza all’ordine, alla coesione della comunità, al rispetto delle regole. Da decenni è confrontato con l’invecchiamento demografico e la denatalità, fenomeni che ha sperimentato prima di ogni altra nazione. La risposta di Tokyo a questi problemi non ha mai previsto un ampio ricorso all’immigrazione, e la maggioranza dei giapponesi sembra preferire il loro modello a quello americano.
Perfino sul “Dna” degli Stati Uniti l’uscita di Biden è una discutibile semplificazione. Gli Stati Uniti hanno alternato periodi di grande apertura e di grande chiusura delle loro frontiere. Tra coloro che vollero controllarla in modo severo ci furono due presidenti di sinistra come Franklin Delano Roosevelt e John Kennedy. Il primo fu il leader del New Deal, che creò un Welfare moderno quando non esisteva, per esempio fondando il sistema pensionistico della Social Security. Kennedy, di origine irlandese, rafforzò il potere dei sindacati. Durante gli anni della sua presidenza, breve perché conclusa dall’assassinio nel 1963, l’America aveva aliquote fiscali “svedesi”, i più ricchi erano colpiti con una progressività spietata. Quel periodo di storia americana compreso tra Roosevelt e Kennedy è quello che più si avvicina a un modello di tipo socialdemocratico, per la solidarietà coi più deboli e per i diritti del mondo del lavoro. È anche un periodo di restrizione dei flussi migratori, con quote etniche e limiti severi. Questo ribadisce e rafforza il “teorema svedese” ispirato da varie esperienze scandinave: puoi costruire una società molto egualitaria e molto solidale finché esiste una certa omogeneità; quando la diversità etnica aumenta a dismisura, la coesione sociale si sfalda.
L’America del periodo Roosevelt-Kennedy aveva il 5% di stranieri. Scomparso Kennedy cominciò una fase nuova, con l’apertura delle frontiere; e poco dopo cominciò l’attacco ai sindacati, lo smantellamento del Welfare, la privatizzazione, la dilatazione delle diseguaglianze. Oggi l’America ha ampiamente superato il 15% di stranieri, più che triplicati. E non ha potuto preservare il modello socialdemocratico Roosevelt-Kennedy. Perfino nell’epoca di grande apertura delle frontiere dopo Kennedy, quella inaugurata a metà degli anni Sessanta da Lyndon Johnson con la Green Card, gli Stati Uniti applicavano quote etniche e governavano i flussi d’ingresso in base agli interessi nazionali e alle tendenze del mercato del lavoro. Il disordine attuale, contestato anche da autorevoli esponenti del partito di Biden, non dipende da qualche “Dna” ma dalle politiche attuate.
3 maggio 2024, 17:38 - modifica il 3 maggio 2024 | 17:40
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