
Il racconto da Rafah: “Senza più posto per gli sfollati, c’è chi torna a Nord per morire a casa”
RAFAH – «Pensavamo che l’inferno fosse Khan Yunis perché non conoscevamo Rafah», dice un uomo accampato con la sua famiglia sulla spiaggia. Hanno piantato una tenda sulla sabbia. Gli spifferi, di notte, entrano da tutte le parti, ma rifugiarsi vicino al mare era l’unica opzione perché a Rafah si sono riversate più di un milione di persone. Agli sfollati arrivati qui durante gli scorsi mesi si sono aggiunti tutti coloro che sono riusciti a fuggire da Khan Yunis, che ora è sotto le bombe israeliane. Uno dei figli dell’uomo esce dalla tenda. Solo lui potrà andare in città a comprare dei vestiti pesanti, un cappotto e qualche maglione, con i coupon forniti dalle associazioni umanitarie. Solo lui riuscirà a non congelare, tutti gli altri passeranno la notte a morire di freddo. I vestiti invernali disponibili sono infatti pochissimi e solo una persona a famiglia può essere aiutata.
A Rafah non c’è più spazio per respirare. «Siamo intrappolati, stipati uno sull’altro», dice l’uomo. Se si scende in strada, sui banchi del mercato il pane costa dieci volte di più. Del carburante che aveva iniziato ad arrivare a Khan Yunis durante gli scorsi giorni non c’è più neanche l’ombra. Alcuni hanno organizzato una sorta di mercato nero e ne vendono una minuscola quantità a un prezzo altissimo. In città c’è un’atmosfera terribile, le persone si urlano addosso, le file per gli aiuti sono interminabili e i pochi uomini di Hamas rimasti non riescono più a far rispettare l’ordine. Gli abitanti di Rafah hanno il cuore grande e molti hanno aperto le loro case. Lo spazio, però, non basta per tutti. Un altro uomo, arrivato ieri in città, ha girato per ore invano, cercando un posto per sé e i parenti. Non ha trovato nessuno disposto ad ospitarlo. Così ha deciso di tornare a Khan Yunis. «Se devo morire, preferisco farlo a casa mia», dice.

Più a Nord, nel frattempo, nelle zone martoriate dai bombardamenti, l’esercito dello Stato ebraico punisce chi non ha voluto abbandonare le proprie case e fuggire. «Ci hanno fatto uscire tutti dicendo che avrebbero dovuto condurre dei controlli nella scuola dove eravamo accampati, per vedere se c’erano dei miliziani nascosti tra noi, anche se negli istituti ci sono solo rifugiati», spiega un uomo che è rimasto con la propria famiglia a Gaza City. «Hanno radunato tutti gli uomini adulti, li hanno fatti spogliare e costretti a inginocchiarsi, poi li hanno arrestati. Poco dopo hanno distrutto la scuola e ci hanno lasciato senza nessun posto dove andare».

Sia chi è rimasto a Nord che gli sfollati del Sud hanno la stessa opinione: la speranza di vedere una fine nel conflitto non esiste più. C’è molta rabbia in seguito alla decisione degli Usa di porre il veto sul cessate il fuoco, presa al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. «Israele dice che la guerra potrebbe durare altri due mesi», conclude l’uomo accampato sulla spiaggia di Rafah. «Non sappiamo più in cosa sperare, siamo esausti. Ci hanno costretto a scendere prima dal Nord della Striscia fino a Khan Yunis, e poi a venire qui. Anche se tutto questo finisse non avremmo più un posto in cui tornare, perché le nostre case al Nord sono state distrutte. Moriremo di freddo e di fame, stipati uno sull’altro, qui a Rafah».
(testo raccolto da Beatrice Offidani)