Jhumpa Lahiri: «Ci sono tanti ebrei nelle tende che manifestano per Gaza. Gli atenei hanno reagito male per paura di perdere fondi»

diViviana Mazza

La scrittrice cresciuta negli Usa, ex allieva e docente di Barnard: «È come il 1968»

«Ci sono tanti ebrei nelle tende<br>Le università hanno reagito male per paura di perdere fondi»

Studenti della Columbia University preparano dei cartelli per un corteo a supporto dei palestinesi di Gaza (Ap)

DALLA NOSTRA CORRISPONDENTE 
NEW YORK - Da ex allieva del Barnard College (classe 1989), da docente (dirige il dipartimento di Scrittura creativa) e da madre di due studenti (a Barnard e Columbia), Jhumpa Lahiri definisce la situazione nel campus «una tragedia». Ha firmato una lettera alla presidente del college, Laura Ann Rosembury, chiedendo di revocare le sospensioni degli studenti e porre fine alle restrizioni dei diritti, anche dei professori, di esprimere le loro opinioni sul conflitto a Gaza. In questo semestre tiene lezioni a distanza da Roma: «Li vedo tutti sconvolti», ci dice. «Non è più l’università dove ho studiato, dove sono tornata con gioia e orgoglio, perché sono la donna e la scrittrice che sono grazie a Barnard e a Columbia. Mi sono sentita sempre libera, ispirata dalla Storia dell’università, delle proteste, dal clima di lotta per le cose giuste e dal vasto panorama di punti di vista. Io mi vergogno, veramente».

Di cosa?
«Non è una situazione in bianco e nero, ci sono tanti studenti ebrei nelle tende e anche tra quelli arrestati. C’è una percezione sbagliata, come se questo gruppo protestasse contro una comunità intera, ma non è vero. È molto più complesso, più delicato. Purtroppo quello che sta succedendo adesso non mi stupisce, ne ho visto i semi in autunno. C’erano già subito proteste, bandiere, due squadre, pro e anti. Il problema è l’amministrazione: ha gestito malissimo i punti di vista diversi nel campus, e ha subito reagito male anche per paura di perdere finanziamenti. Queste università private sono un ecosistema complesso, chi dà tanti soldi per edifici e ricerche può sottrarli. E questo è un momento storico, paragonabile al 1968 o alla situazione in Sudafrica. Però il problema adesso è che c’è una mancanza totale di dissenso e di dialogo. Hanno deciso di sospendere studentesse che non hanno più modo di entrare nelle loro stanze, non possono mangiare, una cosa allucinante. E hanno gestito male sin da ottobre - novembre le proteste: non puoi più mostrare una bandiera di nessun tipo, né mettere sulla porta un adesivo pro o contro, una censura completa; hanno cancellato e sospeso i gruppi e cambiato le regole: “bisogna chiedere mesi prima il permesso per una protesta”. Non funziona così. È una situazione in tempo reale, non è come organizzare un matrimonio».

Fuori dal campus ci sono stati istigatori violenti. Gli studenti all’interno hanno preso le distanze?
«Sì, assolutamente».

Ma nell’accampamento ci sono slogan pro-intifada o «dal fiume al male la Palestina sarà libera», che parte della comunità ebraica considera antisemiti. C’è una intimidazione degli studenti ebrei?
«Io non penso che stiamo parlando di intimidazione, stiamo parlando di reazioni a certe parole e frasi che possono essere interpretate.... Secondo me l’amministrazione ha sbagliato perché quando ci sono momenti in cui le persone si sentono sotto attacco, bisogna parlarne apertamente col coinvolgimento di tutta l’università, con persone in grado di spiegare il contesto storico e politico di un conflitto che va avanti da più di 70 anni. Ma questa conversazione necessaria non c’è stata in quel momento. Uno sbaglio enorme, poi la situazione è peggiorata».

Secondo lei gli studenti che protestano erano aperti a questo dialogo?
«Secondo me sì».

È giusto sospendere i docenti che definiscono Hamas una forma di «resistenza»?
«Per me no. Perché è un punto di vista che non possiamo cancellare. È un’opinione nel contenitore dell’università. E se non diamo spazio, se non siamo in grado di ospitare persone che vengono da tutte le parti e tutti i punti di vista, non è più un’università. Ho pensato tanto alle parole di Primo Levi che dice ne “Il sistema periodico” che ci vuole il dissenso, il diverso, il grano di sale e di senape, sennò il rischio è il fascismo. È un periodo strano: le elezioni in America, e ora questo terremoto. Ma l’’università non sta proteggendo gli studenti né i professori, anche le figure controverse. Io ero lì negli anni 80, quando c’era Edward Said. Non ha mai nascosto il suo punto di vista, eppure l’università l’ha sempre protetto».

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23 aprile 2024 ( modifica il 23 aprile 2024 | 22:01)

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