Dall’Egitto agli Emirati: in volo con i bambini di Gaza feriti

AL ARISH (Egitto) — L’aereo sta per decollare. I passeggeri di questo volo speciale sono pregati di prendere posto, allacciare le cinture e dimenticare il male causato dagli adulti e dai loro conflitti. Sessantacinque bambini palestinesi sono saliti a bordo e hanno la guerra nella carne. Arrivano da Gaza, da Khan Yunis, dal campo profughi di Deir al Balah e dalle tendopoli dell’ormai invivibile Rafah. Hanno bisogno di cure urgenti. Sono amputati, bruciati, sfregiati. Sono interrotti.

Li hanno sistemati nella parte posteriore del Boeing 777 del governo degli Emirati Arabi. Evacuazione umanitaria. Andranno negli ospedali del regno per essere operati in sale sterili, finalmente con la giusta dose di anestesia, finalmente senza il rischio che l’intervento si blocchi a metà per colpa di una bomba. Le sedie a rotelle sono piegate lungo il corridoio di destra. Per otto bambini, immobilizzati, hanno costruito delle brande che occupano lo spazio di quattro finestrini. Il piede sinistro di Shahad (7 anni) spunta dalle coperte. Il nome, in arabo, significa miele. Sta cercando una patatina nel sacchetto che la nonna le ha appoggiato sul petto ma il gesto è reso complicato dalla fasciatura della mano. Una delle tante bende che avvolgono il suo corpo ustionato.

Emile Ducke / OSTKREUZ
Emile Ducke / OSTKREUZ 

Sono le nove e mezzo della sera. Dal deserto del Sinai si è alzato il vento che porta la sabbia sulla pista dell’aeroporto egiziano di Al Arish. Shawqi (9 anni) ha bisogno di più ossigeno degli altri per cui può stare su due sedili. Non aveva mai visto un aereo. Sulla scaletta mimava con le braccia lo sbatter d’ali degli uccelli per spiegare alla mamma il segreto delle cose che volano. Iyad, un uomo di poche parole e grandi baffi, sta posizionando un cuscino sotto la gamba ingessata di suo nipote Helmi (11 anni). «Tra tre ore e venti atterreremo ad Abu Dhabi», la voce del pilota all’altoparlante. «Non sono previste turbolenze lungo la rotta».

Emile Ducke / OSTKREUZ
Emile Ducke / OSTKREUZ 

L’operazione di imbarco è durata l’intero pomeriggio. Le brande sono state caricate con un elevatore attraverso i portelloni di emergenza. Anche Hassan (9 anni) è salito così. Cammina appoggiandosi a un deambulatore, come i vecchi. Le hostess gli hanno acceso i cartoni animati sul monitor. Mustafà (17 anni) si aggira tra i sedili, mostrando agli altri piccoli sopravvissuti gli arabeschi bianchi sulla testa rasata. Sono le cicatrici lasciate dal tetto che lo ha schiacciato per dieci minuti.

Il triage è stato improvvisato nell’hangar. A tutti è stato messo un braccialetto bianco al polso sinistro con nome e cognome per l’identificazione. Poi un braccialetto blu al polso destro se il paziente mostrava sintomi di infezione, viola se il quadro clinico è molto grave. «Potete usare anche la caviglia…», ha spiegato il capo missione, un irlandese tozzo e gioviale di nome Joe Coughlan. I paramedici hanno preso l’appunto: mettere i braccialetti alle caviglie se il paziente non ha più le braccia. È capitato. A Shahad Hamed hanno messo il viola. E quella che segue è la sua storia.

«Il 20 dicembre il nostro appartamento a Rafah è stato bombardato dagli israeliani», racconta Maisul Hudi, la nonna, 51 anni, sette figli e quattordici nipoti. Siede accanto alla branda. «Eravamo al terzo piano. L’onda d’urto ha scaraventato Shahad fuori dalla finestra. Sua sorella Badra lo stesso. Io mi sono salvata perché una credenza di legno mi ha protetto. Shahad ha bruciature sul 30 per cento del corpo, compresa la faccia. Le hanno già fatto degli innesti di pelle prendendola dalla gamba sinistra. Ha una frattura al cranio, ma all’European Hospital di Khan Yunis i neurochirurghi non se la sono sentita di fare l’intervento». I capelli tagliati corti della bimba suggeriscono che ci devono aver almeno provato. Il volto è di un rossastro innaturale. Poco fa un dottore le ha iniettato il sedativo nella gamba senza pelle. Si è coperta gli occhi con la mano, per nascondere alla nonna la propria sofferenza.

«Ha le allucinazioni e attacchi di panico», dice Maisun. «Vede le pareti venirle addosso. Si addormenta solo con le pillole. Nel bombardamento è rimasta uccisa tutta la famiglia, tranne Badra. Mia figlia Maria, sua madre, è morta. Suo padre Jamal, anche lui morto. È sola, ha soltanto me. Non la abbandonerò mai, gliel’ho promesso. Farò di tutto per…».

Succede qui.

Gli adulti hanno sbagliato di nuovo. Troppe le domande e troppe le risposte. Il rumore dei motori del Boeing ovatta la cabina e la voce di Maisun si sentiva a malapena, ma Shahad la fissava. Il labiale della nonna le ha fatto capire di chi stava parlando e tutto il dolore dell’assenza è tornato su. Le lacrime adesso rigano quel viso troppo rosso. Si è voltata verso il finestrino. Le turbolenze non sono previste, aveva detto il pilota. Ma non aveva avvertito dei vertiginosi vuoti d’aria in cui si precipita per il senso di colpa, quando si viaggia sull’aereo dei fragili.

Per prendere il volo che dal confine egiziano della Striscia conduce agli ospedali di Abu Dhabi non serve il biglietto, serve un parente di primo grado vivo. Gli emiri si sono impegnati a far curare 2.000 bambini, una metà selezionata tra chi ha traumi di guerra, l’altra metà tra i malati di cancro. «Finora ne abbiamo trasferiti 425 in dieci viaggi», dice Joe, l’infermiere irlandese che guida un team di 79 persone tra medici, paramedici, pediatri, volontari. «Questa è l’undicesima missione». Ha 49 anni. Era a Kabul nell’agosto del ritorno dei talebani, a organizzare la fuga dei civili. «Perché possano superare il valico di Rafah con le ambulanze della Mezzaluna Rossa, però, devono essere accompagnati da un genitore o da un tutore legale, altrimenti rischiamo l’accusa di traffico di minorenni». Lo prevede la normativa internazionale. Significa che i 65 passeggeri che stanno mangiando il riso monoporzione coi bocconi di pollo non sono neppure il gradino più basso dell’emergenza umanitaria a Gaza.

Gli ultimi degli ultimi li chiamano con un acronimo arido quanto la burocrazia: wcnsf. Sta per wounded child no surviving family, bambino ferito senza parenti sopravvissuti. «Potremmo salvarli facendoli operare da noi, ma non possiamo trasferirli», denuncia Maha Barakat, assistente del ministro degli Esteri emiratino. «Ci sono centinaia di casi, è l’emergenza delle emergenze». Le autorità della Striscia di Gaza, controllate da Hamas, dichiarano 27 mila vittime e 66 mila feriti. Quanti siano minori e quanti i wcnsf non è chiaro, pare il 40 per cento del totale. Secondo l’Unicef gli orfani di uno o entrambi i genitori nella Striscia sono 17 mila, l’uno per cento della popolazione sfollata.

Sorvolando l’Arabia Saudita Shawqi ha una crisi respiratoria, i suoi polmoni hanno perso la capacità di contrarsi. È stato in terapia intensiva per più di due mesi al Nasser Hospital di Khan Yunis. Dalla finestra vedeva gli stormi migrare. Sua madre Manad, 29 anni, ha dormito per settimane fuori in una tenda vicino al pronto soccorso, poi si è spostata in una scuola. «C’erano centinaia di persone nelle aule, stavamo per terra, sui banchi, sulle scale. All’ospedale ho visto una camera con un paziente e cinquanta sfollati dentro, il medico non riusciva a passare per visitarlo». Shawqi è disteso sui sedili e soffia con tutta la forza che ha nel sacchetto di carta scura usato per il mal d’aria. «Ha avuto un intervento alla trachea».

Per lo meno Shawqi una mamma ce l’ha ancora. Helmi no. Il suo biglietto per andare a farsi ricostruire negli Emirati la caviglia frantumata da una scheggia è nonno Iyad, che a 57 anni, dopo una vita passata nei cantieri israeliani a dare ordini a muratori e carpentieri, si deve reinventare psicologo infantile, perché Helmi è più rotto dentro che fuori. Si è messo a piangere dal nulla, si contorce in un lamento. Iyad gli ha appoggiato la mano sulla spalla, non sa bene che cosa dire ma lo dice. L’adolescente si strofina gli occhi. Che gli è capitato, Iyad? «Stava giocando con gli amici nelle scuole dell’Unrwa nel quartiere Zeitoun, a Gaza. È stato bombardato un posto dove vivevano undicimila persone, senza motivo. Ma ai governanti di Israele non interessa dei civili palestinesi che il suo esercito uccide mentre dà la caccia ad Hamas, per loro sono solo un numero accettabile». Come si esce da questa situazione, Iyad? «Con le elezioni. Non trattateci come un popolo minore, fateci decidere».

Seduti ad ascoltare una guerra che non vediamo, perché ai giornalisti è tuttora impedito di entrare nella Striscia se non embedded, è cominciata la discesa verso Abu Dhabi. Bisogna andare ai propri posti, alzare lo schienale, ricomporsi.

A Shahad qualcuno ha portato un palloncino rosso. «La mamma e il papà sono vivi, sono solo andati per un po’ in cielo», le va ripetendo da un mese Maisul. «Ma perché la mamma non chiede mai di me?», risponde la bimba. Gli adulti sfilano nei corridoio accanto ai fragili, cercando di suscitarne i sorrisi. Quasi a volere il perdono per non aver saputo fare di più. Per non aver saputo fare di meglio.