E Mélenchon alzò la voce, velleità e «vendette» dopo il trionfo a sorpresa
Il leader dei radicali di sinistra: «Ora tocca a noi». Ma l'alleata Tondelier: «Voi di Lfi avete tutto il diritto di sostenerlo ma serve una soluzione condivisa»
DAL NOSTRO INVIATO
PARIGI - «Ordine, e disciplina». Dopo tanto tacere imposto dagli alleati, Jean-Luc Mélenchon ha ricominciato a parlare con la voce del padrone. Le avvisaglie c’erano già state domenica sera, quando il suo breve discorso era stato pronunciato con toni stentorei, e non soltanto per il noto problema di udito che lo costringe al volume alto. Ieri sera, durante la prima e interlocutoria riunione dei vertici del Nouveau front populaire, ci ha tenuto a rendere chiari quali sono i rapporti di forza all’interno dell’alleanza.
Ai capi delle altre formazioni politiche del Nfp, che ribadiscono con sempre più frequente regolarità di non volerlo come primo ministro, ha ribadito che la scelta di chi guiderà il nuovo governo non spetta a loro. «Da quando la Quinta Repubblica conosce delle situazioni di coabitazione, sempre, senza mai alcuna eccezione, è stato il partito che esprime il maggior numero di deputati a indicare il nome del primo ministro». Mélenchon ne ha fatti tre, tra i quali non compariva il suo. Ma è come se lo avesse fatto per interposta persona, citando Clémence Guetté, Mathilde Panot e Manuel Bompard, in pratica la sua Santissima Trinità, i fedelissimi che lo hanno appoggiato nella decisione di epurare da La France insoumise i deputati e i dirigenti che contestavano la sua autorità e le sue dichiarazioni.
Governare, ma come? Da soli. Per decreto, laddove sia possibile. La decisione di escludere qualunque accordo con altre forze politiche è anche lo strumento che usano Mélenchon e Lfi per evitare una esclusione che significherebbe per altro la fine del Fronte popolare così come l’abbiamo conosciuto nella sua breve vita.
«A Jean-Luc brucia ancora il 2022» ci ha confidato lo stesso Bompard durante la festa di domenica sera. Alle ultime presidenziali, il fondatore de La France insoumise rimase escluso dal ballottaggio per una manciata di voti, frutto delle consuete divisioni a sinistra. All’ultimo momento, gli negò il suo appoggio il segretario dei comunisti Fabien Roussel, che decise di correre per conto suo, ottenendo un 2,28 per cento dei voti, con i quali Mélenchon avrebbe superato Marine Le Pen, e si sarebbe giocato l’Eliseo con Emmanuel Macron, per altro non partendo battuto, secondo i sondaggi dell’epoca. «Si sentì defraudato di una possibilità che a ragione credeva di meritare».
Mélenchon chiede soprattutto di essere riconosciuto. Almeno come un padre della nuova sinistra, spiegano i suoi collaboratori. «Non accetta di essere vissuto come un pericolo per la democrazia» sostiene Panot, altra esponente del suo circolo ristretto. Ce lo diceva poco dopo quel discorso nella piazza Stalingrado in festa, quasi a spiegare i toni così perentori. Proprio ieri, la deputata appena rieletta ha aggiunto che «nonostante quel che si dice, lui non è affatto fuori gioco per Matignon», la residenza ufficiale del primo ministro. A stretto giro di posta, le ha replicato la più dialogante degli alleati. Marine Tondelier ha fatto da pontiere tra gli Insoumis e il resto del Fronte. «Voi della Lfi avete tutto il diritto di sostenerlo. E noi non abbiamo alcun pregiudizio, siamo per la biodiversità. Ma bisogna trovare una soluzione compatibile con tutto il nostro habitat comune».
Quella della gauche è stata una vittoria storica che ognuno ha festeggiato a casa propria. Gli Insoumis, i Socialisti e gli Ecologisti erano a pochi chilometri l’uno dall’altro. Nessuno ha sentito il bisogno di aggregarsi ai compagni di viaggio. Al centro di questa apparente disunione, o di una alleanza senza amore, c’è Jean-Luc Mélenchon, inutile girarci intorno. «Nessuno crede al fatto che in fondo è un timido» dice Panot. Quando era un giovane trotzkista, i suoi compagni di corrente lo inviarono da François Mitterrand per esporre al presidente le loro lamentele. Quando tornò, gli chiesero com’era andata. «Non sono riuscito a parlare, ero troppo emozionato» fu la risposta.
A vederlo da vicino, Mélenchon risulta essere davvero uno strano impasto di aggressività, cultura e dolcezza. È questa miscela che gli fa ottenere un gran seguito presso i giovani. L’altra sera ha emozionato la folla leggendo i versi finali di «Ma France», una canzone scritta Jean Ferrat, che oltre alla bellezza della Bretagna e della Provenza cita anche Robespierre, Victor Hugo, il Fronte popolare del 1936 e il maggio 1968. Forse, proprio in questo calderone che mette tutto insieme ci sono i pregi e i limiti di Jean-Luc Mélenchon, l’uomo che ama la Francia e la sinistra quasi come sé stesso.