Pejman Abdolmohammadi: «L'opinione dei cittadini iraniani non conta, il voto è influenzato dal controllo della repubblica islamica»

diAndrea Nicastro

Il professore associato dell'Università di Trento commenta le elezioni: «L’astensione e il boicottaggio sono stati impressionanti, secondo le nostre informazioni ha votato il15%-18% della popolazione»

Intervista Iran «L'opinione della maggioranza dei cittadini non conta

Pejman Abdolmohammadi

Il professor Pejman Abdolmohammadi ha un’idea delle elezioni iraniane molto più netta di quella che emerge dai report delle poche agenzie d’informazione internazionali ammesse a lavorare nella Repubblica Islamica. Professore associato a Trento, ha insegnato alla London School of Economics e in molti altri atenei nel mondo. La sua doppia identità, italiana e persiana, la sua estesa rete di contatti nel Paese, lo rendono un analista prezioso. L’esordio, ad esempio, è fulminante: «Queste non sono elezioni dove conta l’opinione della maggioranza dei cittadini. L’astensione e il boicottaggio sono stati impressionanti. Ufficialmente si parla di 40% di partecipazione al primo turno, ma secondo le nostre informazioni sul campo il 15%-18% sarebbe più realistico. In sostanza si tratta di un voto pienamente influenzato dal controllo delle istituzioni della repubblica islamica».

Quindi è inutile analizzarlo?
«No, perché a seconda di chi emergerà vincitore, avremo l’indicazione di dove vuole andare la Repubblica Islamica. L’Iran è un attore razionale. Sta vedendo l’Europa virare leggermente a destra, Israele farsi sempre più assertivo e, soprattutto, vede avvicinarsi la rielezione di Trump. A Teheran sono convinti che un Trump 2 non si limiterebbe a far fuori un altro generale Soleimani. Lo immaginano molto deciso contro tutto l’Islam politico radicale, in particolare contro Teheran. Così la Repubblica Islamica si prepara una dirigenza politica adeguata».

Spieghi.
«Se prevarrà Jalili sarà un brutto segno: vorrà dire che l’Iran è pronto allo scontro frontale. Se prevarrà Pezeshkian allora si capirà che l’intenzione di Teheran è di adottare un approccio dialogante. Con il cosiddetto riformista Pezeshkian tornerà sulla scena il ministro Zarif che aveva firmato il primo patto sul nucleare. Tenterà di riaprire quel dossier per ridurre le sanzioni economiche».

Pezeshkian è quindi, per lei, solo un’operazione cosmetica?
«Pezeshkian è il candidato che rappresenta l’anima più vicina ai khomeinisti con una devozione nei confronti dell’attuale Guida Suprema Alì Khamenei. Tuttavia, ha passato molti anni assieme a esponenti riformisti. Non è certo uno che andrà contro il sistema, l’ha dichiarato lui stesso. Però risulterebbe più compatibile ad un tentativo di distensione sul piano internazionale. In politica interna, senza intaccare l’obbligo del velo, potrebbe essere più tollerante. Lo stesso nella censura dei libri, degli spettacoli, dei concerti».

Seguendo il suo ragionamento, le voci sull’incidente all’elicottero del presidente Raisi come attentato interno diventano credibili.
«Non esattamente. In ogni sistema autoritario o semi autoritario, il sospetto è sempre presente. Ma la mia lettura è che all’interno della Repubblica Islamica nessuno aveva interesse ad eliminare uno “yes man” come Raisi. La sua morte è stata uno choc. Probabile sia stato un vero incidente, ma se proprio vogliamo speculare credo più ad un eventuale attentato israeliano che a un auto golpe. E’ normale, Iran e Israele sono in guerra».

Il voto è controllato, l’ex presidente un burattino, il nuovo eletto uno strumento. Chi comanda davvero in Iran? I Pasdaran o gli ayatollah? Militari o religiosi?
«Come diceva Platone i pastori diventeranno così dipendenti dai cani che i cani diventeranno lupi. Cioè, prima o poi i “guardiani della Rivoluzione”, i Pasdaran appunto, si mangeranno i clerici rivoluzionari. Ma quel momento non è ancora arrivato. Il clero sciita ha perso parte del suo potere effettivo e reputazionale. Solo il 15-18% della popolazione crede ormai ai leader islamici. I militari sono leggermente più popolari, ma non ancora in pieno controllo del Paese».

Che probabilità ha Mojtaba Khamenei, figlio della Guida Suprema Alì Khamenei, di prendere il posto del padre?
«Dipende dai giochi di potere interni. Uno degli sbagli tipici dei sistemi autoritari è nominare una figura nuova mentre il leader è ancora in vita. Fu l’errore del presidente egiziano Mubarak che tentò di nominare un successore mettendo in pericolo il vecchio entourage. Così durante la “primavera araba” non lo difesero. Il figlio di Khamenei è molto attento. Alla morte del padre potrebbe puntare a far parte di una triade di vertice invece di imporsi come uomo solo al comando».

E che probabilità ci sono che il regime cada?
«Tra tutti i Paesi del Medio Oriente, Israele escluso, l’Iran è il più vicino alla possibilità di diventare una democrazia moderna e pluralista. La maschera è caduta, circa l’80% della popolazione non crede più al gioco del regime ibrido che ha retto per decenni: l’alternanza tra un presidente severo a uno sorridente. Gli iraniani hanno una alfabetizzazione politica molto alta. Una volta tolta la cappa dell’Islam politico esisterebbero già l’abitudine e le istituzioni per la democrazia: Parlamento, elezioni, società civile, complessità e pluralismo del sistema economico. In Iran esiste una classe media, l’educazione è molto alta, le donne studiano e lavorano». 

Eppure, neanche il movimento Donne Vita Libertà ha scosso il regime.
«Non l’ha abbattuto, ma ha fatto saltare i codici della Repubblica Islamica: il velo e i turbanti sono volati via sia fisicamente sia simbolicamente. E’ stato un rinascimento culturale. I ragazzi uccisi provengono anche da strati sociali medio bassi e anche da madri religiose che hanno sempre indossato il chador. Per loro l’Islam politico è finito. Resta un 20-25% di abitanti a favore della repubblica islamica. Più o meno come alla fine del fascismo o del nazismo. Sono opportunisti, conformisti o ideologicamente convinti. La lotta tra maggioranza e minoranza può sfociare in un sistema autoritario puro, ancora più chiuso dell’attuale, oppure nella nuova democrazia del Medio Oriente».

5 luglio 2024

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