Hamas ancora a Gaza. Israele ammette: “Inondati i cunicoli”

Il governo israeliano conferma per la prima volta di aver allagato alcuni tunnel di Hamas, rendendo pubblica una notizia già diffusa dalla stampa settimane fa. Una ammissione che racconta le difficoltà fin qui incontrate dall’esercito israeliano nel tentativo di “sradicare Hamas” da Gaza, nonostante 110 giorni di guerra.

Secondo il Wall Street Journal finora sarebbe stato distrutto tra il 20 e il 40% per cento dei tunnel nella Striscia. Vuol dire che tra il 60 e l’80% del reticolo sotterraneo che protegge il gruppo palestinese potrebbe essere ancora intatto e operativo. L’operazione “Mare di Atlantide” che doveva allagare con acqua di mare i tunnel, dunque, a quanto sembra non ha avuto gli effetti che i comandanti speravano. È probabile che in profondità ci siano paratie stagne in grado di isolare un singolo tunnel da tutti gli altri, proprio per evitare questo genere di attacchi. Hamas basa tutta la propria strategia di guerra su questa sua capacità di resistere a oltranza. Il suo calcolo è che più trascina le cose in lungo e più i suoi nemici saranno in difficoltà e potrà trattare da una posizione di forza.

Oggi una delegazione di Hamas sarà al Cairo per il seguito dei negoziati di Parigi: vuol dire che un accordo di massima con Israele c’è, è considerato plausibile ed è voluto da entrambe le parti. Prevede una lunga pausa nei bombardamenti e nei combattimenti a terra, che durerà da un mese e mezzo a due mesi, la liberazione di tutti i 136 ostaggi israeliani in tre fasi (prima donne, vecchi e bambini, poi i militari e infine la restituzione dei corpi dei morti) e come contropartita la liberazione di prigionieri palestinesi. Come durante la tregua di una settimana a fine novembre.

Adesso però c’è da decidere i numeri ed è la parte spinosa. Per il primo gruppo – quindi donne, vecchi e bambini – si parla di un corrispettivo fra i cento e i duecentocinquanta prigionieri palestinesi in cambio di ogni singolo ostaggio, scelti anche fra quelli che hanno commesso atti di terrorismo. E considerato che il primo gruppo potrebbe contare fra i trenta e i quaranta israeliani vuol dire che il numero dei palestinesi da liberare potrebbe arrivare fino a seimila, che è il numero di detenuti palestinesi attualmente nelle carceri israeliane. Sarebbe il “tutti in cambio di tutti” che il capo di Hamas a Gaza, Yahia Sinwar, aspetta fin da quando fu liberato lui stesso nel 2011 in cambio del soldato Shalit.

Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ieri ha detto che lui non accetterà la scarcerazione «di migliaia di prigionieri», ma deve fare i conti con la promessa pubblica che ha fatto alle famiglie degli ostaggi: riportarli a casa, ha detto in più di un’occasione, è la mia priorità.

La Jihad islamica, che è il secondo gruppo di Gaza dopo Hamas per forza militare e dispone di alcuni ostaggi, punta i piedi e dice che non parteciperà a nessun accordo se prima le truppe israeliane non lasciano la Striscia di Gaza. Ma l’attenzione è sugli elementi della destra estrema ben piantati dentro al governo Netanyahu, che protestano contro il negoziato con forza. Il leader del Partito sionista religioso, il ministro Bezalel Smotrich, dice che non approverà mai un accordo che preveda uno stop ai combattimenti e «la liberazione di massa di terroristi», perché «sarebbe come perdere tutti i risultati ottenuti finora contro Hamas con il sangue dei nostri soldati e perché trasformerebbe ogni ebreo di Israele nel bersaglio di un rapimento».

Anche il ministro Itamar Ben Gvir, capo del partito Potere ebraico, è sulla stessa linea, perché dopo una tregua così lunga sarebbe molti difficile riprendere i combattimenti. Entrambi per adesso non spiegano cosa faranno in caso di accordo e quindi se butteranno giù il governo oppure no. Ma domenica i due hanno partecipato a una conferenza che aveva come tema “tornare a costruire insediamenti dentro la Striscia di Gaza” – e suona come se vivessero in una realtà alternativa, perché le dichiarazioni del governo sul dopoguerra vanno nella direzione di un passaggio di Gaza a qualcuno, non l’esercito israeliano, che dovrà gestirla e controllarla. Il giornale Haaretz titola sconsolato così: stiamo andando verso scontri in strada tra le famiglie degli ostaggi e l’estrema destra.

L’altro grande elemento di incertezza in queste ore è la risposta dell’Amministrazione Biden all’uccisione, domenica in Giordania, di tre militari americani con un drone lanciato dalle milizie filoiraniane dell’Iraq. Ci si aspetta che raid aerei americani colpiscano obiettivi legati all’Iran, considerato il grande sponsor di queste operazioni. Le milizie irachene Kataib Hezbollah intanto ieri hanno annunciato che non faranno più attacchi contro le truppe Usa per evitare “imbarazzo” al governo iracheno, ma il Pentagono ha accolto l’annuncio con molta cautela.

Da Washington è appena tornato il generale israeliano Eyal Zamir, che si occupa di chiedere e sollecitare le armi che serviranno per la possibile guerra contro gli Hezbollah libanesi– come bombe e missili. Ma, scrive il sito Walla, è tornato con una risposta educata ma vaga degli americani, che vogliono studiare meglio la questione: suona come un primo effetto della freddezza tra Biden e Netanyahu. Alla Casa Bianca pensano che il primo ministro israeliano ascolti troppo i suoi ministri della destra e troppo poco il presidente Usa.