Perché in Portogallo è arrivata l’estrema destra

Caro Aldo,
in Portogallo si sono tenute le elezioni per il rinnovo del Parlamento. In attesa di capire se si riuscirà a formare un governo, mi ha colpito l’exploit di Chega (significa «basta») formazione politica di estrema destra. È il nuovo che avanza oppure il vento di destra che soffia in Europa, Italia compresa?
Andrea Mantovani

Caro Andrea,
In effetti il Portogallo era un caso interessante: uscito da una dittatura crollata cinquant’anni fa, finora non aveva conosciuto formazioni di estrema destra. Anche se il centrodestra portoghese — si scrive partito socialdemocratico, si legge liberale — finora ha sempre escluso accordi con «Chega!» (che non significa solo «basta», ma anche «arriva»). L’unica soluzione è quella preventivata alla vigilia: un partito socialista sconfitto di misura che lascia governare, almeno all’inizio, il centrodestra tradizionale. Resta da capire, però, i motivi per cui i socialisti portoghesi sono usciti così ridimensionati dal voto, nonostante i buoni risultati ottenuti dal loro governo. Il Portogallo era considerato un modello. La generazione precedente dei leader socialisti era riuscita a mettere fuorigioco i comunisti duri di Álvaro Cunhal e i militari ancora più estremisti di Otelo de Carvalho (Mário Soares mi raccontò in un’intervista di aver ottenuto dal premier laburista Callaghan la promessa che l’Air Force britannica sarebbe intervenuta in caso di golpe). Negli anni scorsi i socialisti — che dalla Francia a Israele passando per la Grecia sono crollati — riuscivano in Portogallo ad assorbire le spinte dei populisti di sinistra antisistema, a stabilizzare il debito pubblico e a far ripartire l’economia. I turisti arrivavano, così come i pensionati ricchi di altri Paesi europei, per pagare meno tasse. Ne è derivato però un aumento dei prezzi che ha ridotto il potere d’acquisto dei ceti medi e delle classi popolari. Quando lo sviluppo è drogato dagli escamotages, prima o poi il conto ti arriva; e Lisbona non è e non può diventare uno di quei paradisi fiscali — retaggio del Medioevo in piena globalizzazione — che attraggono impunemente gli elusori, al sicuro nei grattacieli mentre i compatrioti attendono per giorni nelle corsie dei pronto soccorso che si liberi un letto d’ospedale. Ultimo aspetto interessante: «Chega!» ha fatto il pieno tra i giovani, grazie a una campagna social. Senza arrivare alle stesse percentuali, anche Vox in Spagna punta, più che sui pochi nostalgici di Franco, sul voto dei diciottenni che disprezzano i vecchi partiti; magari perché non sanno che a loro devono la democrazia.

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«L’atterraggio a Torino in canottiera e calzoni corti»

Vorrei condividere un episodio delle memorie di mio padre Giuseppe durante il corso d’addestramento, all’aeroporto di Mirafiori, per diventare pilota da caccia. Scrive: «Il 25 agosto 1936, in volo in coppia su due CR.32 con il Serg. Magg. Bandini che fungeva da istruttore, ci siamo diretti verso il monte Rosa a quota 1.500 metri. All’improvviso il motore del mio aereo ha cominciato a “singhiozzare” e a fumare. L’aereo dell’istruttore si è subito affiancato sulla mia destra, poi si è messo davanti imponendomi di planare e di continuare a smanettare col motore nella speranza che riprendesse il suo ritmo. Invece il motore continuava a fumare fino a quando si è spento con l’elica “in croce”. Per un istante mi sono visto spacciato. L’istruttore davanti a me planava sempre più dirigendosi verso la periferia di Torino, guidandomi verso l’inizio di Corso Francia, un grande viale alberato dove lateralmente passano i tram e nel mezzo le auto. Visto che avevo centrato perfettamente la direzione del viale, l’istruttore mi fece segno di scendere. Posai le ruote a terra alla “vaselina” fino a quando, dopo una corsa che mi sembrò interminabile l’aereo s’arrestò con una emozione che non dimenticherò mai. Più fortuna di così non avrei potuto avere dato che in quel momento nessun veicolo stava transitando. Rimasi immobile nell’abitacolo mentre la gente si avvicinava. Ero incerto se uscire dall’aereo dato che non indossavo la divisa. Ero in canottiera e con i calzoni corti. Giunsero due carabinieri per accompagnarmi in auto all’aeroporto mentre il mio istruttore sorvolava la zona per assicurarsi che tutto fosse andato bene».
Vittorio Di Santo

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