La vendetta jihadista sul Canale di Suez
WASHINGTON. Lloyd Austin ha convocato una riunione con gli alleati regionali, e non solo, oggi dalla base della Quinta Flotta americana in Bahrein dove il segretario della Difesa arriva dopo la tappa in Israele. Lo scopo è una risposta comune alle azioni degli Houthi, i miliziani yemeniti filoiraniani che da settimane bersagliano i cargo e le navi che incrociano nel Mar Rosso. Anche ieri la portaerei statunitense USS Carney ha abbattuto 14 droni in risposta a un attacco condotto dai ribelli contro un mercantile, lo Swan Atlantic, e una seconda nave.
Ogni anno fra Suez e Bab el-Mandeb transitano 23 mila navi. Il 15% del greggio mondiale e l’8% del gas liquefatto passano da questa rotta. Che negli ultimi due mesi ha visto una diminuzione dei volumi di un terzo. Alcune compagnie leader nei trasporti via mare come Maersk e Msc hanno interrotto i passaggi dall’area; ieri poi la britannica Bp ha annunciato che non farà passare le sue navi dal Canale di Suez. Stessa decisione per la norvegese Equinor che ha ridiretto «alcune petroliere» lontano dall’area. Diventa quindi obbligatoria la via attorno all’Africa con conseguenti allungamento dei tempi di consegna e aumento dei costi. Negli ultimi due mesi 55 mercantili che hanno optato per la circumnavigazione dell’Africa. La mossa della Bp ha dato una spinta al prezzo del greggio, a Wall Street il Wti ha superato i 74 dollari al barile segnando quasi più 3%, prima di assestarsi attorno ai 72,25. Ben lontano dai massimi del 27 settembre (93,68) e anche dagli 86,38 nel lunedì successivo all’attacco di Hamas. Ma a preoccupare è, più che il dato di ieri, un possibile trend. A tenere contenuto il prezzo finora è stato l’aumento dello shale americano, ma la congiuntura Ucraina-crisi medio orientale, rischia di innescare una spirale rialzista dopo che negli ultimi due mesi il barile aveva perso il 20%. Dentro l’Amministrazione Usa vi sono sensibilità diverse su come gestire il fronte yemenita.
I contatti con le parti avvengono tramite l’Oman, e ieri gli Houthi hanno recapitato il messaggio che i cargo non hanno nulla da temere se non sono israeliani o non riforniscono in qualche modo lo Stato ebraico nella sua guerra contro Hamas. Per evitare incidenti la Evergreen Marine di Taiwan ha temporaneamente sospeso la collaborazione con spedizionieri israeliani.
Nei giorni scorsi il sito Politico aveva scritto di piani di azione militari Usa contro gli Houthi. Ma a livello politico – e soprattutto ai vertici del Pentagono – c’è molta perplessità su come agire. Per questo Austin vuole una coalizione: l’idea che siano gli Usa a combattere contro gli Houthi significherebbe coinvolgere anche l’Iran. L’America guida la Combined Task Maritime Force 153, un’alleanza comprendente 39 Paesi – fra cui l’Italia – che vigila sulla libertà di navigazione nella zona del Golfo di Aden e dell’Oceano Atlantico e attorno alla Penisola arabica. Gli Usa annunciano una coalizione di dieci paesi, tra cui Gran Bretagna, Francia, Italia e Bahrein: aderiranno alla «iniziativa di sicurezza multinazionale». Austin ieri da Tel Aviv ha detto che «la libertà di navigazione è importante» e che «faremo tutto il possibile per preservarla». Dalla Casa Bianca, il portavoce del Consiglio per la Sicurezza nazionale, John Kirby, ha confermato l’impegno Usa «per rafforzare le operazioni della Quinta Flotta» ipotizzando appunto un’estensione della coalizione. Paesi alleati come Arabia Saudita e Emirati Arabi hanno approcci divergenti. Con i primi a spingere per una via negoziale e triangolazioni con Teheran, peraltro già avviati; e gli altri che premono su Washington affinché reinserisca i miliziani yemeniti nella lista dei gruppi terroristici.
Un altro problema - notano fonti diplomatiche americane a La Stampa - è trattare con gli houthi stessi, che «troppo spesso vengono dipinti come pedine iraniane, ma che in realtà hanno una loro agenda propria». Che vede al primo posto il controllo di alcune regioni dello Yemen. Washington è riuscita a ottenere nel 2023 una tregua fra sauditi e ribelli sciiti. E il rischio che un’azione troppo vigorosa come risposta agli attacchi nel Mar Rosso riaccenda il conflitto, è alto.