Gli Stati Uniti sospendono l’invio di bombe a Israele
L’avvertimento di Austin: le operazioni non devono superare la «linea rossa». Netanyahu vede il capo della Cia Burns

Blindati dell’esercito israeliano nella zona sud della Striscia, a pochi chilometri da Rafah, dove sono ammassati 1,5 milioni di profughi (Afp)
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME — Alla fine di aprile Joe Biden è riuscito a far approvare l’invio di aiuti militari a Israele per oltre 25 miliardi di dollari. Adesso si rifiuta di mandare 1.800 bombe da 910 chili e 1.700 da 225. In mezzo alle due decisioni ci sono la telefonata di mezz’ora tra il presidente e il premier Benjamin Netanyahu lunedì pomeriggio e l’incursione degli israeliani verso Rafah la mattina dopo. In quel colloquio Biden ha ricevuto garanzie che l’operazione sul confine con l’Egitto sarebbe stata limitata, la sospensione della fornitura di armamenti serve ad avere delle garanzie. Perché se il governo a Gerusalemme dice di essere «frustrato» dalla decisione di rinviare la spedizione, ancora più irritati cominciano a essere gli americani.
Lloyd Austin, il segretario alla Difesa, spiega che il blocco non è definitivo, allo stesso tempo avverte che gli Stati Uniti ne stanno valutando altri e ricorda: «Abbiamo espresso chiaramente quali sono le nostre aspettative sul raid». Alla commissione del Senato precisa che il punto è «usare le munizioni adatte al tipo di obiettivo. In una cittadina densamente popolata quelle da 900 chili possono creare molti danni collaterali». I carri armati sono entrati dal valico di Kerem Shalom, riaperto agli aiuti, e hanno raggiunto i cancelli del punto di frontiera con l’Egitto. Oltre ci sono i cubi mal intonacati di Rafah, il milione e mezzo di sfollati dal nord della Striscia ridotto in macerie, le tende degli accampati tra le case.
Oltre c’è la «linea rossa» che la Casa Bianca considera insuperabile: un’invasione massiccia dell’area dove i generali israeliani vogliono affrontare gli ultimi quattro battaglioni di Hamas e dove si nasconderebbe Yahya Sinwar, il capo dei capi fondamentalista e pianificatore dei massacri del 7 ottobre. Da mesi Washington chiede di vedere i piani per allontanare dai combattimenti la popolazione civile ammassata sul confine: prima dell’ingresso di martedì mattina l’esercito ha ordinato a 100 mila persone di lasciare le aree e spostarsi verso Khan Younis, la città che avevano abbandonato agli inizi di dicembre.
«L’evacuazione non ha avuto la nostra approvazione», precisa il portavoce del dipartimento di Stato. In molti non sanno più dove fuggire, i palestinesi uccisi in 215 giorni di conflitto sono quasi 35 mila. Netanyahu ha incontrato ieri William Burns, il capo della Cia, che arrivava dal Cairo. Gli americani, assieme all’Egitto e al Qatar, sono ancora convinti di poter raggiungere un’intesa per la tregua.
Gli israeliani fanno sapere di non vedere «nessun passo in avanti», da quando i leader di Hamas hanno annunciato di aver accettato la proposta: in realtà una controfferta che la delegazione inviata dal primo ministro sta valutando. E che contiene alcuni elementi giudicati da sempre inaccettabili da Bibi, com’è soprannominato: le garanzie che la guerra finisca e la richiesta di inserire nella lista dei 33 ostaggi da rilasciare nella prima fase anche quelli deceduti.
I fondamentalisti accusano gli israeliani «di essere tornati al punto di partenza», il governo risponde di non aver mai visto il documento e che i termini del patto erano diversi. «L’unico modo di riportare indietro i sequestrati — dice Aviv Kochavi, l’ex capo di stato maggiore, al Canale 12 — è fermare il conflitto. Anche perché non ci può essere la “vittoria totale” proclamata da Netanyahu senza che ritornino a casa».