Carlo, papà a tempo pieno: «Ho lasciato il lavoro per occuparmi di mio figlio e permettere a mia moglie di sentirsi realizzata»

diGreta Sclaunich

Carlo D’Alimonte, 39 anni, ex project manager, da 3 anni ha messo in pausa la professione: «Come me ne conosco solo due, a volte mi chiamano "mammo", so che è una scelta inusuale ma sono felice»

Carlo D’Alimonte: “Io, papà a tempo pieno: ho lasciato il lavoro per occuparmi di mio figlio”

Carlo D’Alimonte, papà a tempo pieno, con la moglie Julia e il figlio Noah

Ore 17, parchetto in centro a Milano. Tra scivoli e altalene ci sono una trentina di bambini sotto i sei anni e altrettanti accompagnatori. O, per meglio dire, accompagnatrici: mamme, nonne, babysitter. Gli accompagnatori maschi sono tre: due nonni, entrambi insieme alle rispettive mogli, e un papà. «Succede sempre così: nella stragrande maggioranza dei casi mi ritrovo a fare gruppo insieme alle mamme. Di papà che si occupano a tempo pieno dei figli mentre la mamma continua a lavorare, come succede nella nostra famiglia, finora ne ho conosciuti solo due», esordisce Carlo D’Alimonte, 39 anni, ex project manager nel marketing online, mentre tiene d’occhio suo figlio Noah, di quasi tre anni, che si arrampica sui giochi in legno. «D’altronde – continua – la mia è una scelta ancora inusuale».

Cosa l'ha spinta a decidere di occuparsi di suo figlio a tempo pieno?
«Appena abbiamo saputo di aspettare Noah io e mia moglie Julia abbiamo iniziato a parlare di come gestire la nostra famiglia dopo la sua nascita. Viviamo a Milano ma le nostre famiglie sono lontane, la mia a Firenze e la sua in Germania: quindi non avremmo avuto aiuti, da subito sapevamo che sarebbe stata dura».

Una situazione comune a molti, e alla quale si sommano anche le difficoltà dovute ai costi dei servizi per la prima infanzia e ai pochi posti nei nidi comunali. Secondo i dati Istat una donna su cinque, dopo la nascita del primo figlio, non torna a lavorare: per molte è una scelta obbligata, conviene che continui lavorare chi, tra i genitori, ha lo stipendio più alto. È stato un ragionamento che avete fatto anche voi?
«Abbiamo fatto dei calcoli spannometrici: Julia aveva già una carriera avviata e guadagnava abbastanza da coprire le basi dei primi anni di vita di nostro figlio. A me era sempre piaciuta l’idea di dedicarmi a tempo pieno a mio figlio, almeno per un periodo, e quindi ho approfittato del fatto di essere in un momento di cambiamento a livello professionale per prendermi una pausa e crescerlo nei primi anni della sua vita passando più tempo possibile con lui. Così mia moglie è libera di concentrarsi sul lavoro: sono contento di poterla assecondare in ciò che la fa sentire realizzata nella sfera professionale».

Come sono le sue giornate?
«La mattina prepariamo Noah insieme e lo portiamo al nido, dove resta fino al primo pomeriggio quando vado a prenderlo. Poi andiamo a giocare al parchetto: con il tempo ho creato un gruppo con altre mamme e facciamo giocare insieme i nostri figli, ci scambiamo consigli, ci sosteniamo… Insomma il classico “gruppo mamme” dove però ci sono anch’io, un papà: ho scoperto che la condivisione aiuta tanto noi genitori. Verso le 18 io e Noah torniamo a casa, gli do la pappa e lo metto a nanna. Julia torna a casa intorno alle 20, ma a volte anche più tardi».

E cosa fa mentre Noah è al nido?
«In teoria sarei libero. In pratica, tolto quel paio d’ore a settimana che mi ritaglio per fare sport, non lo sono per niente: riordino casa, faccio la spesa e il bucato, cucino, mi occupo delle commissioni come posta, tintoria…».

Tutte quelle mansioni che di solito, in una famiglia, ricadono sulla donna.
«Non sai quante volte mi hanno dato del “mammo”. O mi hanno detto che faccio la bella vita, perché mi faccio mantenere da mia moglie».

A livello economico come vi gestite?
«Io non sono più economicamente indipendente: mia moglie copre tutte le spese, incluse le mie. Non ho mai vissuto questa situazione come un peso, neanche a livello psicologico: non mi sono mai sentito a disagio o inferiore per questo. Certo, per entrambi è una situazione nuova. Ci stiamo abituando a dei ruoli “nuovi”, che di solito in una coppia sono invertiti».

Nelle vostre dinamiche di coppia è cambiato qualcosa da quando sta a casa?
Le nostre scelte, fin da subito, si basano sul fatto che faremo sempre le cose che ci sembrano giuste per noi come famiglia, non giuste per gli altri. A volte è difficile, per entrambi: quando mia moglie dice che è lei a mantenere la famiglia riceve molti sguardi incuriositi, e a volte anche di disapprovazione. Senza contare, come raccontavo prima, quelli che danno a me del mantenuto. Ma ciò che veramente conta per noi è nostro figlio: vediamo che è felice e cresce bene, ed è quello l’importante».

Il lavoro le manca?
«Per me essere un genitore che ha la possibilità di crescere il proprio figlio in prima persona è un valore. Detto ciò, sento il bisogno di fare qualcosa per me come individuo, fuori dal ruolo di papà: con gli anni ho imparato, anche crescendo mio figlio, a essere più gentile con me stesso e a dirmi che troverò il mio spazio quando ci sarà l’occasione giusta. Per ora non ho particolare fretta, perché sono sereno nella mia scelta di voler stare con Noah».

Ha mai dei ripensamenti, dei momenti di défaillance?
«A volte, quando vedo amici che riescono a fare tutto: tengono insieme lavoro, famiglia, figli. Ecco, in quei momenti li guardo e penso: ma cosa sbaglio io, perché io non riesco a farlo e loro sì? Poi però penso che le foto su Instagram sono una cosa e la realtà è un’altra, e che tutte le famiglie hanno delle difficoltà che magari da fuori non si vedono. Con mia moglie siamo sempre stati d’accordo sul fatto che se le cose a un certo punto dovessero non funzionare, sia da parte mia che da parte sua, cambieremmo la nostra situazione».

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5 marzo 2024

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