Elogio della Biennale 2024 ma solo quando emoziona
Caro Aldo,
nel sito del giornale australiano The Age, ho letto un titolo che comprende l’espressione «the art world’s Olympics» ossia le Olimpiadi del mondo dell’arte. Si riferisce alla Biennale di Venezia. Ennesimo esempio della considerazione di cui godiamo all’estero che temo sia ignorata dalla maggioranza dei nostri concittadini. Che ne pensa?
Daniele Licciardello
Caro Daniele,
La Biennale 2024 è molto interessante. Certo, sembra presieduta da Michela Murgia più che Pietrangelo Buttafuoco. Il nuovo presidente ha trovato tutto fatto dalla vecchia gestione, e ha saggiamente evitato polemiche; lascerà certo un’impronta maggiore nell’edizione 2026; e poi Buttafuoco non è un bacchettone da Dio patria famiglia, è appassionato dei legionari di Fiume, è uno di quegli spiriti liberi con cui è bello confrontarsi a maggior ragione quando la si pensa diversamente, mangiando insieme il sale della vita. Questa Biennale è bella perché restituisce la parola al Sud del mondo, che per troppo tempo non l’ha avuta. Pure il padiglione americano pare quello di uno Stato minore dell’Africa Nera. Poi certo l’Arsenale è talmente bello che le stesse cose viste in un altro luogo avrebbero alla lunga l’effetto del «naif jugoslavo alle pareti» di Fantozzi, durante la sua rapida e fugace carriera quando il direttore naturale si era illuso che portasse fortuna. Tra le opere più riuscite c’è una sorta di «sindone del migrante» che interroga il visitatore. Da tempo l’arte ha divorziato dalla bellezza. A volte riesce ancora a suscitare emozioni. Questo purtroppo non accade nel padiglione italiano; e qui ha ragione il sindaco di Venezia Brugnaro. (A proposito: il ticket era necessario, non si capisce perché chi dorme a Venezia deve pagare cinque euro di tassa di soggiorno e chi vi passa no; l’importante è che i soldi siano spesi bene).
LE ALTRE LETTERE DI OGGI
Storia
«Il mio ricordo del 25 aprile e dei 16 fascisti uccisi»
Ho 88 anni e ho vissuto nel nord Italia i giorni della Liberazione. Da due anni abitavo a Castello di Lecco dove la mia famiglia era sfollata a seguito dei bombardamenti su Milano che avevano provocato la distruzione della nostra abitazione. Il 25 aprile ascoltammo alla radio la notizia dell’insurrezione e il giorno seguente apparvero i partigiani. Al posto di blocco sotto casa uno di loro — armato — mi fermò per ispezionare la pentola che portavo al forno accanto all’abitazione (e che conteneva l’abituale porzione di polenta). In attesa della resa ufficiale agli alleati i tedeschi sospesero le ostilità, mentre una brigata fascista diretta in Valtellina si trincerò in un edificio di Lecco e resistette sino al 27. Nella battaglia caddero alcuni partigiani e fu ferito il loro capo, Riccardo Cassin, già allora famoso alpinista. Il 28 aprile alcuni partigiani «nuovi arrivati», come li definì lo stesso Cassin in un suo libro, decisero la fucilazione immediata dei sedici fascisti che si erano arresi. Io ero un bambino di 9 anni e vidi il camion che si recava al campo sportivo, il luogo dell’esecuzione. I condannati erano molto giovani — credo attorno ai 16 anni — l’ultima leva di volontari della Repubblica di Salò. Mentre andavano a morire cantavano in coro inni fascisti. Una visione che in quasi 80 anni non si è mai cancellata: una lezione, un insegnamento a rifiutare ogni manifestazione di fanatismo e di divisione ideologica.
Pier Giovanni Palla
BOLOGNA
«Nessun avviso di lavori, ma la tangenziale era chiusa»
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