Orbán nei conservatori e più soldi a Budapest. Il patto col diavolo per evitare la paralisi

BRUXELLES – A volte serve un patto col diavolo, perché l’alternativa è addirittura peggiore. Quello con Viktor Orban nasce mercoledì notte, attorno a un tavolino del privé dell’Amigo, tra i calici vuoti di vino e champagne. È un trilaterale alcolico e drammatico. Tocca a Emmanuel Macron condensare l’angoscia dei commensali. E spiegare a Giorgia Meloni e Olaf Scholz che la leadership ungherese va riportata alla ragionevolezza. Che non si può inviare il segnale devastante di una paralisi sull’adesione dell’Ucraina all’Unione. Che non esiste un piano B che non avvantaggi Vladimir Putin e i nemici dell’Europa. Stallo, in fondo, significa implosione. Con il potere di veto, Orban può bloccare il bilancio comunitario, stroncare le ambizioni e la resistenza di Kiev, boicottare ogni dossier sensibile nei mesi e negli anni a venire. In fondo, ha tempo davanti: è stato da poco rieletto, ricorda Macron. Serve un percorso politico che lo riporti al tavolo, dopo il suo addio al Ppe. E servono soldi, molti soldi. I tre decidono che bisogna aprire a nuove concessioni economiche, nonostante i dieci miliardi appena scongelati dalla Commissione dopo essere stati a lungo bloccati per le violazioni dello Stato di diritto del governo ungherese. Alla fine, dovrebbero essere circa dieci miliardi in più. E concordano anche su un altro punto: dopo le Europee del 2024, un ingresso di Orban nel gruppo dei Conservatori continentali potrebbe aiutare la causa comune.

Come in ogni trattativa davvero vitale, i protagonisti si dividono i compiti. Lo fanno in vista della battaglia del giorno dopo. Quello nobile se lo ritagliano Macron e Scholz: saranno loro, faccia a faccia con il Presidente ungherese e in nome dei principi europeisti, a minacciare misure drastiche. Lo faranno accompagnati da Ursula von der Leyen e Charles Michel, che detengono i cordoni della borsa europea. Apriranno all’opzione di garantire altri fondi aggiuntivi rispetto a quelli già liberati alla vigilia del summit, certo. Ma lasceranno intendere che nessuna arma politica, anche quella più estrema, può essere esclusa. Il riferimento è all’articolo 7 del Trattato, che congela la partecipazione di uno Stato membro al Consiglio.

Già al termine del summit di mercoledì notte, Meloni sa che dovrà incontrare l’ungherese. Da sola, però. Uno sgarbo dei due partner? Sul punto, le versioni divergono: secondo fonti europee, è una scelta che in qualche modo indica una gerarchia nella trattativa, relegando l’italiana al secondo gradino della scala. Per Palazzo Chigi, si tratta di un congegnato gioco di sponda tra alleati che collaborano. In ogni caso, la premier vede Orban subito dopo il quartetto composto da Macron, Scholz, Von der Leyen e Michel. Lo conosce da anni, vanta una comune appartenenza sovranista. L’ha invitato ad Atreju, cantando assieme l’inno antisovietico “Avanti ragazzi di Buda”. Poi la fondatrice di Fratelli d’Italia è arrivata al governo. E adesso cerca di contenere l’alleato di un tempo, per pragmatismo e per favorire la tenuta della coalizione europeista che punta al bis di Von der Leyen, o comunque a isolare l’estrema destra di Le Pen e Salvini. Quella che non piace neanche a Roberta Metsola, la popolare presidente del Parlamento amica di Meloni, che nella hall dell’hotel Stanhope confida: «Ero in Italia, il leghista mi attaccava in continuazione. Magari però così ho tolto il problema a Meloni, almeno per qualche giorno...». È il cordone anti-estremisti che si consolida.

Ma torniamo a Orban. Da un anno, tratta con l’italiana il possibile ingresso del suo partito, Fidesz, nell’Ecr. Farebbe comodo ai Conservatori, minacciati dal sorpasso di Identità e democrazia. La proposta è rinnovata: entra, inciderai negli equilibri del prossimo Consiglio, avrai un portafoglio di commissario all’altezza.

Ad Orban interessa soprattutto il capitolo delle risorse, va detto. Con una capriola che nega le barricate delle ore precedenti, rilancia: voglio i 21 miliardi bloccati. Sono quelli per la coesione — congelati a causa delle violazioni ungheresi sul capitolo dei diritti Lgbtq+ — e quelli del Pnrr.

Meloni sente di nuovo Macron e Scholz (sono i protagonisti della foto notturna all’Amigo, gli stessi della foto con Mario Draghi sul treno per Kiev, e dunque non si capisce bene perché allora si trattava di sterile politica estera a colpi di istantanee, mentre oggi dimostra protagonismo italiano, come scrive la premier, ma questa è un’altra storia). La leader aggiorna Scholz e Macron. La trattativa riparte. Il segnale arriva nel pomeriggio: Orban si assenta dalla sala al momento del voto sull’Ucraina, che avviene a Ventisei, ma il processo di adesione di Kiev può partire. Il ricatto politico si sposta sul bilancio comunitario: l’ungherese minaccia fino a sera di bloccarlo, almeno finché non gli saranno concessi i “suoi” 21 miliardi congelati. L’impegno politico della Commissione per l’Ungheria ci sarebbe, almeno per una quota del totale: si parla di dieci miliardi. Si tratta ancora, sul filo. Il patto con il diavolo è a buon punto. Con la Russia che preme sull’Ucraina, sembra il guaio minore per tutti.