«In Europa c’è un pericoloso vuoto normativo su difesa e intelligenza artificiale»
di Mariarosaria Taddeo
Da pochi giorni abbiamo il quadro della situazione con cui l’Italia ha chiuso il 2023. E va ricordato in breve, perché può avere ricadute determinanti non solo sul Paese ma per le decisioni che l’Europa dovrà prendere nel 2024 e soprattutto nel 2025: prima e ancora di più dopo un eventuale ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Ecco dunque come l’Italia esce dall’anno passato: investiti 77 miliardi di euro a debito per il Superbonus immobiliare, record storico e superiore di quasi 40 miliardi a quanto programmato dal governo stesso in aprile scorso; investiti 21 miliardi, in buona parte a debito, dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr); investiti poco meno di venti miliardi, sempre a debito, in crediti d’imposta per le imprese a titolo di “Industria 4.0”. Ed è vero che una piccola parte del Superbonus e parte di Industria 4.0 si finanziano con fondi del Pnrr.
Ma la sostanza cambia poco: avendo speso un volume di circa cento miliardi di euro di denaro pubblico solo in queste tre voci – accumulando un debito destinato a emergere in gran parte dei prossimi anni – l’Italia chiude il 2023 con un tasso di crescita reale di appena 18 miliardi (cioè dello 0,9% del Pil). Un andamento debole in maniera stupefacente, in proporzione alle risorse prese in prestito per spingere l’economia. In altri tempi si parlava di ripresa economica “drogata” da un boom di spesa corrente. Oggi bisognerebbe parlare di stagnazione drogata. E non è neanche il caso di chiedersi come sarebbe andata l’Italia, se nel 2023 non avessimo avuto un deficit al 7,2% del prodotto lordo – numeri da tarda prima repubblica, per il quarto anno di fila – ma a livelli più normali. Oggi vorrei dunque parlare di come queste contraddizioni del Paese contino tremendamente, non solo per noi ma per l’Europa che ci aspetta in quella che potrebbe essere la seconda epoca di Trump.
Borse 1 marzo | Crollo di New York Community Bancorp a Wall Street, Europa positiva
Le banche Ue superano i 100 miliardi di utile e battono quelle Usa per crescita di ricavi
Immobili, il buco da mille miliardi: i rischi per le banche e i grandi fondi (tra Usa ed Europa)
Deutsche Bank, il crollo innescato dalla scommessa al ribasso dei fondi Usa sulle banche tedesche
È urgente porsi la domanda, perché l’ormai probabilissimo candidato repubblicano alla Casa Bianca veleggia nei sondaggi cinque punti davanti al presidente Joe Biden e alle elezioni di novembre sembra poter vincere nei collegi elettorali dirimenti. Il tempo di prepararsi è adesso. Eppure per il momento in Europa se ne parla solo riguardo alla difesa e alle capacità militari da rafforzare, mentre i piani di politica economica di Trump restano un po’ in secondo piano. Non ci rimarranno a lungo, temo: l’isolazionismo, il protezionismo, l’autoritarismo, il nazionalismo e il risentimento verso l’Europa di Trump sono visibili sul commercio o sulla politica monetaria in misura pari a quando l’ex presidente ha invitato la Russia a fare “quel che diavolo vuole” ai Paesi del vecchio continente che non pagano un (presunto) debito per la protezione militare americana.
di Mariarosaria Taddeo
Provo dunque a riassumere alcuni punti del programma di politica economica di Trump per un suo secondo giro di giostra.
1. Dazi almeno al 10% su tutte le importazioni dal resto del mondo, Europa inclusa.
2. Dazi al 60% su tutti i prodotti cinesi.
3. Controllo essenzialmente politico sulla Federal Reserve, che sarebbe usata finanziare sistematicamente i maxi-deficit federali degli Stati Uniti creando moneta per comprare titoli americani, con conseguente indebolimento del dollaro e possibile aumento dei tassi d’interesse a lungo termine nel mondo.
Ora, non tutto avverrebbe fin dal primo giorno di un Trump 2.0. Soprattutto l’attacco all’indipendenza della Fed – il progetto forse più destabilizzante – dovrebbe comunque attendere almeno il ricambio al vertice della banca centrale, nel maggio del 2026. Ma sarebbe imprudente per l’Europa pensare che al secondo tentativo l’ex presidente non possa davvero tradurre in atti almeno una parte delle sue minacce. L’uomo arriverebbe alla Casa Bianca sulle ali del suo narcisismo rancoroso, con una serie di quelli che lui considera dei conti aperti con i Paesi dell’Unione europea e l’intenzione di chiuderli. Ma alle sue condizioni. Trump ci considera dei parassiti mercantilisti, tecnologicamente arretrati, che prosperano grazie alla generosità (non ricambiata) negli acquisti di prodotti europei da parte di famiglie e imprese americane.
Per capire quale impatto avrebbero i nuovi dazi trumpiani sull’economia e le istituzioni europee, vediamo dunque gli effettivi rapporti di import-export. Ecco il surplus o deficit commerciale degli Stati Uniti con l’Unione europea e con alcune delle sue grandi economie, per quanto riguarda lo scambi di beni, nel 2023 (dati dello US Census Bureau).
- Con la Germania, deficit americano di 83 miliardi di dollari (prima del Covid era di circa 60 miliardi)
- Con l’Italia, deficit di 44 miliardi di dollari (prima del Covid era di circa 30 miliardi)
- Con la Francia deficit di 13 miliardi di dollari (prima del Covid era di circa 15-20)
- Con la Spagna surplus di 1,8 miliardi di dollari (prima del Covid gli Stati Uniti avevano un deficit di circa 4 miliardi
- Con l’Unione europea deficit di 208 miliardi di dollari (prima del Covid era di 150-180 miliardi).
di Paola Pica
In sostanza, gran parte del disavanzo commerciale verso l’Europa che risveglia l'irritazione di Trump si gioca nel rapporto con due soli Paesi: Germania e Italia. Entrambi traggono dagli scambi di prodotti industriali e agricoli con gli Stati Uniti circa due punti percentuali del proprio prodotto interno lordo e questo margine, già vasto prima della pandemia, da allora non ha fatto che aumentare. E’ interessante notare come i deficit commerciali degli Stati Uniti con la Cina, pur enormi, si siano sostanzialmente stabilizzati negli ultimi anni. Quelli europei invece hanno continuato a crescere, rendendo l’Europa ancora più dipendente dall’apertura del mercato statunitense. E ora Germania e Italia sono le economie più direttamente vulnerabili a un ritorno in forza del protezionismo trumpiano.
Ora, naturalmente questo non è altro che uno schematico riassunto. Dazi al 60% sulla Cina e al 10% sul resto del mondo innescherebbero conseguenze a cascata che vanno molto aldilà degli scambi bilaterali degli italiani o dei tedeschi. Nessun sistema potrebbe più basare il proprio modello di sviluppo sull’accumulazione mercantilista di enormi avanzi commerciali verso il resto del mondo, vendendo il più possibile all’estero e comprandone il meno possibile. Cioè, sottraendo domanda e crescita agli altri a proprio vantaggio. Questo è stato il modello pre-Covid dell’area euro, che era arrivata nel 2017 al surplus monstre di 350 miliardi di euro negli scambi totali con il resto del mondo. E questo resta, malgrado tutto, il modello tedesco: l’anno scorso la Germania da sola è tornata a sviluppare un surplus delle partite correnti con il resto del mondo da 240 miliardi, circa il 6% del suo prodotto lordo. La prima economia europea è in crisi profonda, ma ancora non cambia il modo in cui cerca di prosperare a spese degli investimenti e dei consumi degli altri.
di Federico De Rosa
Con Trump, tutto questo finirebbe. Italia e Germania perderebbero parte del loro mercato più vitale. Soprattutto, la globalizzazione entrerebbe in una nuova stagione nella quale l’Europa intera dovrebbe imparare ad affidarsi molto di più ai propri investimenti pubblici e privati in tecnologie, alla propria autonomia energetica e nell’industria della difesa. Scopriremmo che il nuovo Patto di stabilità appena nato è meglio del vecchio (ci voleva poco), ma è già obsoleto nel mondo che si prepara.
Qui devo evocare il convitato di pietra: Mario Draghi. Da qualche tempo sta dando discorsi con cui cerca di aprire gli occhi dei responsabili europei di fronte a questa realtà che si prepara. Il 22 febbraio alla National Association of Business Economists negli Stati Uniti ha detto: “Dobbiamo investire volumi enormi in un orizzonte di tempo relativamente breve” e “la politica di bilancio sarà chiamata a svolgere un ruolo più grande, comportando – prevedo – deficit pubblici più alti”. A una recente riunione di ministri economici europei, Draghi ha parlato per l’Europa di un bisogno di investimenti per 500 miliardi di euro all’anno per la transizione verde e digitale – di cui un terzo dai bilanci pubblici – più quelli per la difesa e per altri settori produttivi. Il motivo è nel grafico di Filippo Taddei di Goldman Sachs, in alto: da più di dieci anni gli Stati Uniti hanno fatto investimenti produttivi, cumulati, per circa duemila miliardi di dollari più dell’area euro. L’effetto si vede nell’accelerazione americana di produttività e reddito alla quale noi europei non riusciamo più a tener dietro. Perdiamo terreno ogni anno.
La frenata dell'inflazione Usa riaccende le speranze sul taglio dei tassi Fed
Frenata dei prezzi in Germania, Francia e Spagna. Buoni auspici per i dati di oggi dell'Eurozona
Le buone trimestrali non bastano a Piazza Affari. Il Nasdaq segna un nuovo record dopo due anni
Per inflazione e carovita gli italiani cambiano le abitudini di lavoro (senza essere supportati)
Ma cosa c’entra tutto questo con lo sconcertante 2023 dell’Italia? C’entra, eccome. Perché l’Europa, di fronte alla sfida Trump, potrà accelerare in due modi diversi gli investimenti volti a preservare la propria prosperità: con nuovo debito e progetti comuni simili a nuovi Recovery Fund, ma pensati meglio; oppure lasciando che investano da soli con le proprie risorse nazionali i Paesi che hanno ancora la possibilità e capacità tecnico-burocratica di farlo. Nel secondo caso noi italiani saremmo fuori gioco, incapaci di difenderci.
Abbiamo dunque bisogno di convincere la Germania e il resto d’Europa a intraprendere nuovi progetti di debito e investimenti comuni. Ma, per farlo, dobbiamo dimostrare che non li sprecheremmo. Cioè che i fondi attuali in Italia vengono spesi bene; che gli investimenti pubblici non vengono catturati in progetti improduttivi da potenti gruppi d’interesse privati, come le associazioni di costruttori che hanno grande parte nella catastrofe attuale del Superbonus; che la spesa per investimenti si traduce in vera crescita, perché la macchina dello Stato diventa più efficiente (invece che sempre meno efficiente, come accade oggi). In altri termini, per tenere di fronte alla sfida di Trump, noi italiani dobbiamo dimostrare all’Europa che siamo diversi da come siamo. Vasto programma.
Questo articolo è stato pubblicato originariamente sulla newsletter «Whatever it takes» di Federico Fubini, clicca qui per iscriverti.
Iscriviti alle newsletter di L'Economia
Whatever it Takes di Federico Fubini
Le sfide per l’economia e i mercati in un mondo instabile
Europe Matters di Francesca Basso e Viviana Mazza
L’Europa, gli Stati Uniti e l’Italia che contano, con le innovazioni e le decisioni importanti, ma anche le piccole storie di rilievo
One More Thing di Massimo Sideri
Dal mondo della scienza e dell’innovazione tecnologica le notizie che ci cambiano la vita (più di quanto crediamo)
E non dimenticare le newsletter
L'Economia Opinioni e L'Economia Ore 18