La minaccia di Mosca sulle armi Usa: «Capitali europee potenziali bersagli»
Peskov: il Cremlino può rispondere ai missili in Germania. Pressing di Zelensky sugli F-16

Kiev, Un volontario porta un sacco di detriti a Okhmatdyt, il maggiore ospedale per bambini, colpito lunedì scorso da missili russi Cruise, causando più di 40 morti (Afp)
DAL NOSTRO INVIATO
KIEV «La Russia dispone delle capacità sufficienti per rispondere ai missili di lungo raggio che gli Stati Uniti intendono dispiegare in Germania. Le capitali europee diventano così potenziali bersagli», dichiara ai media del suo Paese il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov. Una risposta sollecitata dal giornalista della rete televisiva Vgtrk, Pavel Zarubin, che ripropone due temi centrali della propaganda del regime di Vladimir Putin enfatizzati sin dall’invasione dell’Ucraina 29 mesi fa. Primo: non è la Russia ad aggredire, anzi, Putin assurge a ruolo di salvatore della patria investito della missione di difendere il Rusky Mir dall’espansionismo Nato ispirato dall’imperialismo americano strutturalmente nemico di Mosca e dei suoi alleati.
Secondo: Putin tenta continuamente di creare una frattura irreparabile tra Washington e l’Europa. Nella speranza di alimentare le componenti nemiche dei filoatlantici, indirizza il discorso dei suoi portavoce con la chiara intenzione di mostrare quanto l’Europa rischi di pagare sulla sua pelle il prezzo del militarismo yankee.
Dice dunque Peskov: «C’è sempre una situazione paradossale: gli Stati Uniti hanno schierato diversi tipi di missili di diversa gittata, tradizionalmente puntati verso il nostro Paese. La Russia, di conseguenza, ha identificato alcuni centri europei come obbiettivi per i nostri missili... Le capitali europee sono adesso i nostri bersagli». La minaccia è palese, non è la prima volta e non sarà certo l’ultima, associata alla considerazione per cui questa Europa atlantica, descritta come passivo strumento di Washington, «attraversa un periodo difficile», addirittura sta letteralmente «cadendo a pezzi» come l’Urss 35 anni fa.
Vista da Kiev, la narrativa russa continua a minimizzare il valore e la forza dell’esercito ucraino. Ma ciò non scoraggia Zelensky, che insiste nel chiedere armi e velocità nelle consegne (restano tra l’altro in dubbio i numeri e i tempi di arrivo degli F-16): sono stati gli ucraini a fermare i russi e continueranno a farlo, oggi grazie ai nuovi aiuti alleati e con la promessa che la loro entrata nella Nato è ormai «irreversibile», una formula che solo tre anni fa pareva impensabile.
La considerazione più evidente è che, a questo punto, Mosca si trova costretta a fare buon viso a cattivo gioco. Il summit Nato concluso due giorni fa a Washington, a parte il dibattito interno alla politica americana sulla capacità o meno di Joe Biden di restare in lizza per le elezioni di novembre, ha evidenziato prima di tutto la rinnovata forza e coesione degli alleati. La nuova Nato raccoglie l’adesione di Finlandia e Svezia; crescono le spese militari di nazioni che sino a poco fa le riducevano; alcuni governi considerano di tornare alla leva obbligatoria; i Paesi Baltici e la Polonia sono già mobilitati come se l’attacco russo fosse alle porte. Il tema è noto, ma vale la pena di ribadirlo: è stata proprio l’invasione militare dell’Ucraina, la sua brutalità, i massacri di civili — tra i quali il bombardamento dell’ospedale pediatrico di Kiev lunedì scorso costituisce solo l’ultimo crimine di guerra di una ormai lunghissima serie — a spingere la Nato verso la necessità di armarsi e difendersi. Peskov reagisce all’annuncio del 10 luglio di inviare in Germania missili a lunga gittata Usa del tipo SM-6, Tomahawk e i nuovi modelli ipersonici, come se fosse un fulmine a ciel sereno, una mossa aggressiva senza motivo.
La realtà resta che, se il 24 febbraio di due anni fa i tank russi non avessero valicato il confine ucraino, il fronte europeo sarebbe rimasto dormiente, i comandi Nato si sarebbero chiesti se non valesse la pena di ridurre spese, missili e soldati, mentre Washington avrebbe concentrato tutte le risorse nello scacchiere del Pacifico per contrastare la minaccia cinese.