Giustizia, i quattro nodi che infiammano lo scontro tra il governo Meloni e i magistrati

ROMA - Giorgia Meloni che attaccava i governi gialloverde, giallorosso e l’ampia coalizione di Draghi stava dalla parte dei magistrati e chiedeva che si dimettessero subito i politici indagati. Sempre Meloni, diventata prima inquilina di palazzo Chigi, vuole riformare la giustizia tornando proprio a Silvio Berlusconi. A partire dalla legge costituzionale che l’allora Cavaliere mise in agenda, ma non riuscì a fare, nonostante l’impegno dell’allora Guardasigilli Angelino Alfano. Parliamo della separazione delle carriere. A cui l’attuale maggioranza, dove proprio Forza Italia fa ogni giorno la voce grossa, impone che si aggiunga una drastica riforma delle intercettazioni, tutta a vantaggio degli imputati. E chiede che si cambi subito la prescrizione con l’ovvio obiettivo di far cadere il maggior numero di processi. E punta a cancellare anche il reato che colpisce gli amministratori locali, l’abuso d’ufficio, per ottenere una vittoria soprattutto sul piano della propaganda. Infine ecco l’obiettivo di ridimensionare, perché cancellare proprio non si può, la legge Severino, anche in questo caso per fare un favore ai sindaci. Dulcis in fondo la mannaia sulla libertà di stampa con le super multe per la diffamazione.

Ci sono stati “30.778 innocenti in manette negli ultimi 20 anni”, dice alla Camera il ministro della Difesa Guido Crosetto, sventolando la bandiera del garantismo e presentando all’opinione pubblica i magistrati come inquisitori e nemici per principio. Ancora si chiede se “sia un caso che dal ‘92 tutte le riforme sulla giustizia siano bloccate”. E teorizza l’assoluta necessità di fare proprio le riforme che Berlusconi non è riuscito a far passare. Ecco quali sono. A partire da quella che è stata solo accennata in consiglio dei ministri, i test psicoattitudinali per entrare a far parte della magistratura, lanciata proprio da un magistrato prestato alla politica, il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano, che riprende un’antica proposta di Berlusconi, ma che si è fermata, almeno per ora, solo a livello di annuncio.

La separazione delle carriere

È la madre di tutte le riforme. Quella che proprio Berlusconi spiegava al suo popolo con un paio di frasi scandite centinaia di volte a ogni intervento pubblico. È il 10 marzo del 2011 e l’allora premier presenta la sua riforma costituzionale con Alfano. E ripete la sua frase preferita, quella del pm che “va con il cappello in mano dal giudice” e ancora racconta di pm e giudici che s’incontrano al bar, sceneggiando una commistione di interessi che alla fine privilegia l’accusa a scapito della difesa.

Nasce da qui la separazione delle carriere dei pubblici ministeri e dei giudici. Due vite professionali del tutto separate, sin dal concorso, uno per i pm e uno per i giudici. E ancora due Csm, che ovviamente non potranno più essere presieduti entrambi dal capo dello Stato, ma quello dei giudici dal primo presidente della Corte di Cassazione e quello dei pm dal Procuratore generale della stessa Corte. Va da sé che il loro “potere” sarà indiscutibilmente ridotto.

Forza Italia, con l’appoggio di Azione - che vede un fan scatenato della separazione delle carriere nel responsabile Giustizia, ed ex forzista, Enrico Costa - spinge per avere la riforma in contemporanea con il premierato. A Repubblica lo ha ribadito appena qualche giorno fa il vice presidente della commissione Giustizia Pietro Pittalis. Ma la premier Meloni, che pure è favorevole, ha mandato avanti il Guardasigilli Carlo Nordio che ha ripetuto più volte come le due riforme costituzionali - premierato e carriere - non si possono fare insieme. Prima l’elezione diretta del premier, poi la separazione, perché due referendum come questi potrebbero danneggiarsi a vicenda. Ma Forza Italia insiste e vuole la separazione subito.

La stretta sulle intercettazioni

Alle viste invece c’è la riforma delle intercettazioni che Nordio ha già anticipato nel suo unico “disegnino” di legge FdI di una decina di articoli e che giace al Senato dal luglio scorso. Lì Nordio ha già “colpito” la stampa vietando di pubblicare gli ascolti, a meno che non siano contenuti negli atti dei giudici, oppure non siano stati utilizzati in udienza. In più obbligo di buttare via letteralmente tutte le registrazioni che vedono coinvolte terze persone non indagate. Ma che ovviamente, nel corso di un’indagine, potrebbero anche finire indagate in un secondo momento. Ma Nordio dà ordine di gettare via tutto. A ciò si aggiunge un disegno di legge del capogruppo forzista in commissione Giustizia a palazzo Madama Pierantonio Zanettin, avvocato ed ex Csm, che contiene un’ulteriore stretta soprattutto sull’utilizzo della microspia Trojan per i reati di corruzione.

La nuova prescrizione

Anche per la prescrizione, come per la separazione delle carriere, è l’asse tra Forza Italia e Azione ad aver accelerato la nuova legge che andrà in aula alla Camera subito dopo la manovra, e che butta letteralmente via tutte le leggi fatte dal 2017 a oggi. Via la legge Orlando, via la Bonafede, ma via anche la Cartabia, con l‘effetto di ripartire da zero e il rischio di rallentare ulteriormente i processi, anche a scapito del Pnrr. Forza Italia avrebbe voluto il ritorno sic et simpliciter alla ex Cirielli, per cui vale solo il tempo di prescrizione dei singoli reati, senza alcuna rete di salvaguardia per i processi in corso. Il compromesso sul ritorno alla legge Orlando con le modifiche introdotte dall’ex presidente della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi rischia comunque di riaprire tutti i dossier dei singoli processi portandoli comunque alla prescrizione. Preannunciano battaglia in Parlamento le opposizioni, Pd, M5S, Avs.

Via l’abuso d’ufficio

Via l’abuso d’ufficio, ma anche via il reato di traffico di influenze, cioè i due articoli del codice penale che stanno alla base della piramide dei reati di corruzione. Per Nordio è un pallino da anni. Costa lo appoggia con dossier sugli amministratori perseguitati dalla giustizia e poi assolti. Ma anche i sindaci del Pd, a partire da Matteo Ricci che guida l’amministrazione di Pesaro, nonché la stessa Anci, l’Associazione dei comuni italiani con al vertice il primo cittadino di Bari Antonio Decaro, anche lui del Pd, ne hanno fatto una battaglia di immagine. Ma le audizioni di giuristi prima alla Camera, dov’erano incardinati quattro disegni di legge della maggioranza e di Costa per cancellare l’abuso d’ufficio, e poi le stesse al Senato per il ddl Nordio, hanno dimostrato come sopprimere questi due reati sia un clamoroso errore, ma soprattutto ci metta contro l’Europa che, con la sua Commissione, ha stabilito all’opposto che l’abuso d’ufficio è fondamentale. Nordio sostiene di aver interloquito più volte con il commissario Ue alla Giustizia Didier Reynders per spiegare che l’abolizione non creerà danni in quanto il nostro codice penale può rispondere com altri reati, ma proprio dall’Europa arrivano voci in senso opposto.

Ridimensionare la legge Severino

Nel filone degli amministratori locali perseguitati dalla giustizia ecco la richiesta di cancellare il decreto legislativo del 2012 firmato dall’allora Guardasigilli Paola Severino e anche dal ministro per la Pubblica amministrazione, e oggi giudice costituzionale, Filippo Patroni Griffi. Il referendum radical leghista del 2022 già voleva azzerare quella legge, votò solo il 20,9% degli eventi di diritto, e il 54% dei votanti mise la croce sul sì sulla scheda. Un punto di partenza per azzerare del tutto, o quanto meno eliminare la norma che vede penalizzati soprattutto gli amministratori locali, che devono lasciare l’incarico anche solo dopo la condanna in primo grado. La richiesta è almeno quella di parificare la loro situazione a quella dei parlamentari italiani ed europei che invece si devono dimettere o non possono candidarsi solo davanti a una condanna definitiva.

Norme draconiane sulla diffamazione

Ed eccoci alla futura legge che colpirà i giornalisti. Una sorta di chiusura del cerchio, silenziare l’informazione. È al Senato, se ne parlerà a gennaio, siamo già alla fase degli emendamenti rispetto alla proposta del meloniano Alberto Balboni. Ma le multe fino a 50mila euro anche per una rettifica non pubblicata sono chiaramente intollerabili, e lo dicono sia l’Ordine dei giornalisti, che la Federazione della stampa.