Gasperini, il futuro è all'Atalanta? «Non credo proprio sia il momento di andarsene»
Dopo la vittoria dell'Europa League il tecnico dell'Atalanta Gian Piero Gasperini fa un altro regalo ai tifosi: «È il momento di andarsene? Non credo proprio»
E alla fine, quella carezza alla Coppa trattenuta dopo l’Olimpico, l’ha data l’ultima notte, quando l’ha cullata, senza chiudere occhio. Comunque andrà il suo futuro, Gasperini rimarrà nella storia per aver trascinato l’Atalanta a vincere il suo primo trofeo europeo. Il primo a credere nell’impossibile. Come a Liverpool, è stato lo stesso tris. «Finalmente un trofeo, ma c’è tempo per intitolarmi una statua. Il futuro? Il momento di uscire è quando si vince (ride, ndr) ma penso proprio di no. Io voglio perdere...».
Gasperini l’ha vinta ancora prima di giocarla, la partita. Geniale nelle sue intuizioni, ha riproposto quell’Atalanta che il 9 maggio con il Marsiglia ha conquistato la sua prima finale. All’attacco anche nella serata più importante della sua carriera, anche contro gli imbattibili tedeschi: Koopmeiners, De Ketelaere, Scamacca, Lookman. È partito da vincente, ha chiuso allo stesso modo. In quei 14 minuti, tra il 12’ e il 26’, gli passa tutto davanti. Gli ultimi 244 giorni, dalla gara col Rakow— quando doveva ancora rilanciare De Ketelaere e Scamacca di cui aveva già intravisto doti nascoste a Milan e West Ham — al trionfo ad Anfield con il Liverpool.
E poi gli otto anni a Bergamo: il lancio dei giovani, le plusvalenze. «All’attacco», è la sua mentalità, anche sul mercato. Potendo, giocherebbe con 11 attaccanti. Ieri si è accontentato di quattro e di un altro vice in panca. De Roon.
Vive la gara secondo dopo secondo: ai gol di Lookman non si contiene, la giacca per il freddo non la toglie, ma abbraccia tutti. Non gli piace sedersi sugli allori, e nemmeno in panca, al limite del campo, con il cronometro in mano. La testa lavora, le mani pure, per alzare l’asticella, porsi come unico limite il cielo. Che lui indica mentre si sbraccia, perché capire i cambiamenti a gara in corso è il suo marchio di fabbrica. Non sta fermo e non si tira indietro.
Sostenitore del «gasperinismo» la sua personale filosofia che riversa negli allenamenti intensi, quasi estenuanti, al punto che le partite diventano «i riposi della domenica». Più gioca, più va bene. Pensa partita per partita e non guarda curriculum o etichette, per lui vale il merito: se sei distratto resti a casa, se spingi in allenamento, hai la maglia.
Alla fine, ha avuto ragione («ma non è che con un trofeo sono migliore di prima che non lo avevo»). Dopo la vittoria dell’Europa League e la quarta Champions, di certo si chiederà dove possa arrivare ancora la sua Atalanta. E se sarà in grado di soddisfare la sua smania implacabile di cercare, e vincere, nuove sfide.
Come quella superata a pieni voti con Lookman, uno dei capolavori di Gasp con 15 gol e 8 assist. «Abbiamo scritto la storia», ha detto il nigeriano. Gli ha insegnato a spaziare tra la trequarti e la lunetta, e non lo ha mai ingabbiato in ruoli fissi. Il tecnico lo ha coccolato, gli ha tenuto alto l’entusiasmo anche quando è tornato da una finale persa di Coppa d’Africa e la sua maglia è andata ad altri. Lo ha fatto sentire indispensabile, uguale a Scamacca e De Ketelaere. A Lookman ha detto di non ascoltare le voci, gli ha ricordato che l’anno scorso è stato il capocannoniere artefice della qualificazione in Europa. E che a Dublino ha solo chiuso il cerchio.