Meloni insegue Salvini. La linea dura sul Mes decisa con il no-euro Borghi: “Non sai che pressioni”

ROMA – Il racconto, per certi versi strabiliante, lo consegna sull’uscio di Palazzo Madama Claudio Borghi, senatore leghista nemico dell’euro, dell’Europa e ovviamente del Mes. Sono le 16 e l’ispiratore del sovranismo di Matteo Salvini si confida. Ad ascoltarlo capita per caso anche l’azzurro Roberto Pella. “Mi ha chiamato Meloni subito dopo il voto della Camera contro il Salva Stati. Ci siamo congratulati a vicenda per la bocciatura. Negli ultimi due giorni ci siamo sentiti più volte, con Giorgia. Per gestire questa storia”. Borghi squarcia il velo, regalando un retroscena che mostra la presidente del Consiglio intenta a studiare la strategia con il leghista investito da Salvini del compito di affossare il Mes. E questo, mentre Giancarlo Giorgetti ripeteva in ogni sede: il trattato va assolutamente votato entro fine anno.

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Ma non basta. È sempre Borghi a riferire i ragionamenti di Meloni durante questi contatti. “Lei mi ha detto di aver subito pressioni da parte di tutto il mondo, per votare il Mes. Non puoi immaginare quante. E che lo stesso hanno provato a fare su Forza Italia. Ma alla fine le va bene così. Perché? Intanto perché non è mai stata a favore del Mes. L’altro giorno ha provato a dirci: ‘Ma se cambiassimo lì, emendando così…’. Le abbiamo detto che avremmo votato comunque no. Alla fine c’era da decidere se bocciare il Patto o il Mes, entrambe le cose non si poteva: abbiamo scelto di dire no a quella che faceva più danno all’Italia. Perché questo Mes, diciamolo, è un delitto”.

Fin qui Borghi, che ha pure assistito al voto della Camera dalle tribune per gli ospiti. Ma per un giorno – e chissà fino a quando – è l’intera pattuglia sovranista a conquistare il timone del governo. Al mattino, Alberto Bagnai, l’altro leghista euroscettico vicinissimo a Salvini, si presenta a sorpresa alla riunione dei capigruppo di maggioranza della commissione Bilancio della Camera che deve decidere la linea. Accompagna la leghista Silvana Comaroli. Per i presenti, la pietra tombale su ogni scenario di compromesso.

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E d’altra parte, è Salvini il primo a spiegare a Meloni che non c’è margine per cambiare idea, costi quel che costi. La premier ascolta e neanche troppo combatte (anzi, dirà Borghi, si coordina con loro in nome di una ostilità al Salva Stati che arriva da lontano). Abbandona anche un piano B che pure finisce sul suo tavolo: prevede di far astenere tutto il centrodestra, facendo approvare il Mes da centristi e Pd. I consiglieri le spiegano che così certificherebbe la fine della maggioranza in Parlamento. E poi, pesa la voglia di non stracciare lo slogan più sentito, quello su cui vuole costruire la corsa per le Europee: “Coerenza”. A tutti i costi, come strategia in vista delle Europee.

Ma anche come ritorsione politica allo schiaffo subito da francesi e tedeschi sul Patto di stabilità. A Palazzo Chigi si lascia intendere che esiste un cavillo dell’accordo siglato all’Ecofin che, tra gli altri, penalizzerebbe Roma: secondo alcuni, si tratta di quella che costringe i Paesi sotto procedura a concordare l’uso dei fondi pubblici con la Commissione europea nel rispetto delle traiettorie di aggiustamento del debito. Un paletto che in qualche modo - ma il tema è ancora da approfondire - inciderebbe anche sulle modalità di spesa dei soldi del Pnrr.

In ogni caso, il ritorno all’antico della presidente del Consiglio - che resetta quattordici mesi di compromessi con Bruxelles in un mattino - ha effetti deflagranti anche su Forza Italia. Antonio Tajani fa una fatica infernale a tenere unito il gruppo sull’astensione. Alcuni deputati vorrebbero infatti votare a favore del Mes. Alla fine, con un enorme sforzo diplomatico e con la volontà di mandare un segnale distensivo a Bruxelles, l’azzurro Pella riesce a tenere la linea in commissione Bilancio. Lo stesso fa il capogruppo Paolo Barelli, in Aula. Ed è proprio quest’ultimo, in Transatlantico, ad ammettere: “Quanto accaduto è il frutto di una competizione a destra. La nostra astensione? Mica siamo una caserma”. Gli azzurri ancora sperano di tenere accesa la speranza in futuro: tra sei mesi – e non prima, per regolamento - la maggioranza potrebbe teoricamente ripresentare un nuovo disegno di legge che preveda la ratifica del Salva Stati, anche se con modifiche sostanziali. Dunque a luglio, dopo le Europee. Di certo, la scossa lascia scorie nel centrodestra, tanto da spingere Matteo Renzi a brindare con i suoi senatori con un ragionamento sibillino: “Ora si aprono prospettive interessanti…”.

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La premier, intanto, prepara una campagna lunga sei mesi. Riprenderà anche a viaggiare di più, dopo la sessione di bilancio. Sta pianificando due missioni internazionali di livello in vista del G7 italiano: entro marzo potrebbe volare in Canada e Giappone. Poi, a ridosso del summit in Puglia, non si può escludere un viaggio negli Stati Uniti.