Armi, sanzioni e diplomazia: le tre leve di Biden per fare pressioni su Israele e bloccare l’invasione di Rafah

NEW YORK – Dopo l’ennesimo tour mediorientale del segretario di Stato Antony Blinken – durante il quale ha avvertito che un’offensiva di Israele a Rafah sarebbe un “errore che vi isolerebbe ulteriormente nel mondo” - domani toccherà al ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant visitare Washington: suo primo viaggio americano dall’attacco del 7 ottobre scorso.

Incontrerà l’omologo Lloyd Austin, il consigliere per la sicurezza nazionale Sullivan e ancora una volta Blinken: per discutere ancora sul come far procedere quella guerra rispetto alla quale i due Paesi alleati hanno ormai opinioni sempre più divergenti. Anche perché la guerra a Gaza sta entrando sempre più pesantemente nella campagna elettorale americana, pesando sul gradimento di Joe Biden all’interno del suo partito: suscitando il timore fondato di un pesante impatto sulle presidenziali di novembre.

E infatti nelle ultime settimane stiamo assistendo a un vero cambio di rotta da parte americana: che ha il suo apice nella risoluzione presentata alle Nazioni Unite la settimana scorsa in cui gli Stati Uniti hanno chiesto, per la prima volta, un “cessate il fuoco immediato e prolungato” se Hamas rilascerà tutti gli ostaggi. Bloccata da Cina e Russia la risoluzione sarà portata nuovamente al voto oggi. Ma intanto la domanda che in queste ore gli analisti si pongono sempre più è quale tipo di pressione la Casa Bianca intende esercitare su Israele se questo continuerà a ignorare le loro richieste.

Strumenti atti a convincere il governo di Benjamin Netanyahu a concedere più aiuti umanitari ai cittadini di Gaza ormai allo stremo, rallentare la campagna militare o addirittura impedire l’invasione di Rafah dove sono rifugiati oltre un milione di palestinesi.

Se dovesse scegliere di farlo, Biden non sarà d’altronde nemmeno il primo presidente a esercitare pressioni su Israele: ricorda il New York Times che da Gerald Ford a George Bush padre, in passato già quattro amministrazioni hanno rifiutato (o minacciato di rifiutare) qualche forma di aiuto o accordo.

La leva principale nelle mani del presidente in carica è certo quella che riguarda la consegna delle armi di cui gli Stati Uniti sono il principale fornitore. Israele ne ha molto bisogno: sta infatti esaurendo le munizioni, nonostante da ottobre gli siano state consegnate 15mila bombe e 57mila proiettili d’artiglieria Made in Usa. Proprio di questo Gallant vorrebbe parlare ad Austin: secondo alcune fonti chiederà un'approvazione accelerata delle precedenti commissioni di aerei da combattimento F-15 e, appunti, di un grosso lotto di munizioni. Ebbene, se Biden ordinasse un rallentamento o addirittura il blocco di queste consegne, il messaggio ai leader israeliani sarebbe chiaro.

In tal senso, già otto senatori democratici hanno firmato una lettera a Biden inviata l’11 marzo, dove appunto lo esortavano a rallentare – se non frenare – le consegne limitandosi alle forniture di armi difensive come i missili intercettori per l’Iron Dome israeliano. Una richiesta basata sul memorandum pubblicato a febbraio dall’amministrazione Biden, dove ai Paesi che ricevono armi dagli Stati Uniti sono chiesti precisi standard di comportamento, compreso il rispetto del diritto internazionale umanitario. Invocando pure la violazione del Foreign Assistance Act del 1961, secondo cui gli Stati Uniti non possono fornire armi a chi “proibisce o limita il trasporto o la consegna di aiuti umanitari statunitensi”.

Altra leva utilizzabile dalla Casa Bianca è quella di non offrire più il proprio importante scudo diplomatico alle Nazioni Unite. Finora l’amministrazione Biden ha infatti protetto Israele da ogni tipo di condanna o risoluzione che chiedesse l’immediato cessate il fuoco. Mentre un minore sostegno statunitense in tal senso esporrebbe Israele a denunce formali più potenti e impegnative. Dall’inizio della guerra, gli Stati Uniti hanno esercitato tre volte il loro potere di veto al Consiglio di Sicurezza Onu bloccando risoluzioni che chiedevano appunto il cessate il fuoco immediato e senza condizioni. Ora che la pazienza sembra essere finita, sono proprio loro a depositare una risoluzione in tal senso. Un messaggio più che chiaro.

Resta infine la possibilità di applicare sanzioni, questa volta a funzionari israeliani, dopo che il 14 marzo sono state imposte a tre coloni accusati di “violenza estremista”. Tali misure mirerebbero però più a frenare le azioni di Israele in Cisgiordania – dove l’attuale governo sta incoraggiando l’espansione degli insediamenti a spese dei palestinesi – che a rallentare le operazioni militari a Gaza. Di sicuro, a fine febbraio Blinken ha detto di considerare i nuovi insediamenti israeliani nei territori palestinesi “incoerenti con il diritto internazionale”.