Ma Putin vuole la testa di Zelensky

Caro Aldo,
Churchill nell’ora più buia fece una scommessa sul fatto che gli Stati Uniti entrassero in guerra, ribaltando le sorti del conflitto, cosa peraltro rimarcata anche nel discorso che fece al Parlamento. Scommessa poi vinta. Zelensky invece all’ora più buia manco ci è arrivato. Gli Stati Uniti, un giorno sì e un giorno no, rimarcano che non entreranno mai nel conflitto e fanno fatica ad approvare l’invio di risorse finanziare. Le munizioni invece non ci sono proprio, perché Usa ed Europa non hanno capacità produttiva adeguata (con le munizioni non si guadagna come con gli F-35). Quello che ha detto il Papa è solo la verità che è di fronte agli occhi di tutti.
Luca Bongiolatti

Caro Luca,
Lei dimentica un dato. Putin non ha attaccato solo per prendersi il Donbass e magari la fascia costiera per collegarlo alla Crimea. Putin ha attaccato per far fuori fisicamente Zelensky e per insediare a Kiev un governo fantoccio, in modo da portare quel che sarebbe rimasto dell’Ucraina nella propria sfera di influenza sottraendola alla democrazia e all’Occidente. Non si vede perché dal suo punto di vista Putin dovrebbe cambiare piani, ora che l’Ucraina è in difficoltà, i fastidiosi Navalny e Prigozhin sono morti, e tutti i sondaggi danno vincitore a novembre in America uno spregevole personaggio che abbandonerebbe l’Ucraina al proprio destino; perché è evidente che, quando Trump dice che con lui la guerra finirebbe in un giorno, intende dire che Putin avrebbe mano libera. Putin vuole la testa di Zelensky, se possibile non metaforicamente; e al di là dell’improbabile faccia feroce di Macron e Scholz, sappiamo tutti che l’Europa non ha né la forza né la determinazione per combattere contro la Russia. Per questo la situazione sulle frontiere orientali del continente è così drammatica. Ma mi lasci aggiungere una considerazione su Churchill. L’inizio della sua lettera, gentile signor Bongiolatti, mi ricorda una scena del film che si intitola appunto «The darkest hour», l’ora più buia: la conversazione tra il premier britannico (oltretutto seduto in bagno) e Roosevelt, che ribadisce di non poterlo aiutare, e gli offre al più di mandargli armi trainate dal territorio Usa a quello canadese da cavalli («horses?» chiede sbigottito Churchill). Resta da capire se il calcolo del premier fosse giusto, e se l’America sarebbe entrata nella seconda guerra mondiale anche senza Pearl Harbour, cioè se non fosse stata attaccata dal Giappone. (Di sicuro se anche i russi avessero ammazzato il premier greco Mitsotakis, l’Europa si sarebbe limitata a una vibrante protesta).

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«La mia vicina uccisa dal marito, l’orrore mentre dormivo»

Dal settimo al terzo sono quattro piani. A questa distanza dal mio appartamento si è consumato l’ennesimo femminicidio. Lo chiamo così per un dovere di chiarezza: una donna è stata uccisa da un uomo, il marito, in famiglia e un’altra piccola donna di cinque anni è rimasta sola. Uso questa parola perché altro non c’entra: il quartiere, la condizione sociale, l’etnia, la cultura. Lo scrivo perché nello stesso maledetto sabato un’altra donna di un’altra nazionalità è stata massacrata in un altro quartiere, in un’altra regione. Scrivo femminicidio perché a tre fermate di metro di distanza da Numidio Quadrato, a Furio Camillo, quartiere non periferico in cui insegno, è stata massacrata, poco tempo fa, una donna italiana, Martina Scialdone. E di questo si tratta: uccidere una donna che vuole continuare a essere una persona o tornare ad essere una persona, ma resta, nella percezione di chi la uccide, un oggetto da eliminare. Altro non so o forse sì: questa trasversalità del fenomeno m’inquieta di più perché ha radici profonde in tanti aspetti. E perfino chi cerca rifugio nel razzismo che distingue i buoni dai cattivi, quelli del luogo da quelli che vengono da fuori, non ha appigli. Siamo alla tragedia di un femminicidio, dentro un appartamento di un qualsiasi palazzo romano di un qualsiasi quartiere romano o non romano. Non c’è un luogo da chiudere, né una comunità da condannare. Funziona pensare che può capitare a chiunque, ovunque e sempre. Quattro piani dall’orrore che non ho sentito perché dormivo. Non mi voglio abituare, continuerò a parlarne, soprattutto con i miei alunni e le mie alunne a cui affido la speranza della prevenzione e non la disperazione dell’emergenza.
Romina Rotondo docente scuola secondaria di I grado

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