Graziani: spavaldo coi monaci meno con gli inglesi
Caro Aldo,
lei ha ricordato la figura del maresciallo Rommel. Non ha parlato del comandante delle truppe italiane in Africa, il maresciallo Graziani.
Franco Vettori, Milano
Caro Franco,
Un generale va raccontato in azione. Il maresciallo Rodolfo Graziani non aveva esitato, quando si trattava di rastrellare la popolazione civile in Libia e di far fucilare innocenti in Etiopia, compresi gli indovini di Addis Abeba e i monaci cristiani di Debra Libanòs. Quando invece nel giugno 1940 si trova davanti gli inglesi, esita eccome. Mussolini lo incita all’offensiva, Graziani si spinge fino a Sidi el Barrani, e scrive al Duce: «Ci si domanda quando gli inglesi comincino a capire che hanno a che fare col più attrezzato esercito coloniale del mondo». Mussolini, che non è fesso, raccomanda ai giornali di non pubblicare un simile sproloquio. Poi, il 26 ottobre 1940, scrive di nuovo a Graziani per spronarlo: «Al tavolo della pace porteremo a casa quello che avremo militarmente conquistato…». Si pensa ancora che la vittoria tedesca sia imminente; non si tratta di preparare seriamente l’offensiva, ma di avanzare nel vuoto. Si va al disastro, gli inglesi travolgono il nostro esercito, mandano a Londra rapporti umilianti tipo «abbiamo due acri di ufficiali italiani prigionieri», e Graziani perde la testa, passa dall’esaltazione allo scoramento, scrive al Duce: «Riterrei mio dovere, anziché sacrificare mia inutile persona sul posto, portarmi a Tripoli, se mi riuscirà, per mantenere almeno alta su quel castello la bandiera d’Italia… Sia detto questo at mia memoria testamentaria…». Spietato il giudizio di Giorgio Bocca: «Il maresciallo Graziani fa spicco nella mediocre schiera con il suo italiano da fureria, l’umorismo involontario, la boria di chi si pone, essendo una nullità, a misura della storia, il peggio del peggio dell’esercito e della società italiani, peggio del classismo conservatore del gruppo piemontese e dell’arditismo fascistico alla Muti. Graziani è la piccola borghesia agraria, sfruttatrice di sottoproletari, incolta e retorica, permeata di patriottismo astratto, disponibile a ogni esperienza totalitaria, spavalda nel successo, pallida e lacrimosa nell’avversità». Graziani terrà fede a questo giudizio mettendosi al servizio dei nazisti e guidando l’esercito dello Stato fantoccio di Salò, che collabora alla persecuzione degli ebrei. Dopo la guerra, l’Etiopia chiese la sua consegna come criminale di guerra. Ora l’Italia gli ha eretto un mausoleo con i soldi pubblici. Il sindaco di Affile e due assessori furono condannati in primo grado e in appello, ma la Cassazione annullò perché non c’era pericolo di ricostituzione del partito fascista.
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«L’ultimo desiderio di Irene: istituire la festa delle zie»
«Tutti a celebrare le mamme, i papà, i nonni. E le zie chi le festeggia?» Zia Irene mi colse di sorpresa con questa domanda in una delle nostre telefonate, in cui lei mi liquidava sempre velocemente perché troppo indaffarata e soprattutto per tagliare corto su domande con risposte scontate («come stai?»). Zia Irene era una forza della natura. Da bambina mi caricava in sella sul vespone e mi portava in giro. Io mi sono fatta adottare da lei, modello rassicurante che equilibrava quello anarchico di mamma. Zia mi ha incoraggiata a inseguire i miei sogni ovunque fossero, ad avere fiducia in me stessa («Vai a Milano, ti supporto io»), senza mai pretendere o far pesare. «Sii generosa», mi incitava. Lei lo era in modo esagerato. La sua casa, ad Agazzano, nel Piacentino, era un pranzo di Babette perpetuo. Un via vai di persone di ogni età e sesso che entravano ed uscivano con pacchetti in un eterno scambio. Zia non aveva potuto studiare e allora aveva fatto le scuole medie serali poi si divertiva a fare le pulci alla banca, che sempre doveva ammettere l’errore. Zia Irene se ne è andata il 13 aprire di due anni fa, anzi è ripartita «perché noi qui veniamo solo a fare un bel viaggio», sempre con la mente lucida e il cuore grande, qualità che ha saputo gestire con ironia e leggerezza. «Dai, fai un articolo e proponi di istituire la festa delle zie», mi disse. Ecco, io vorrei dedicare il 13 aprile a tutte le zie, che loro malgrado si ritrovano a sostituire madri, baby sitter, supporter, confidentiamiche. Ciao Zia Irene.
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«Io ex medico, attendo la liquidazione da quattro anni»
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