Chicago 1968 e le somiglianze con il 2024: i democratici in crisi e l’America nel caos
La Convention nella stessa città, un presidente che rinuncia alla rielezione, il sangue in campagna elettorale: ci sono molti e sorprendenti elementi di similitudine tra l’attuale situazione e quella di 56 anni fa
Una Convenzione proprio a Chicago in agosto, un presidente che rinuncia alla rielezione, la necessità di nominare in assemblea un candidato che non è stato benedetto dalle primarie, il sangue che compare sulla scena della campagna elettorale. Ci sono molti e sorprendenti elementi di somiglianza tra l’attuale situazione americana e quella di un tempo lontano, l’estate del 1968. «America, America dove vai?» è il titolo italiano di un film uscito nel 1969, realizzato da Haskell Wexler.
In quel film dimenticato, persino sparito, ci sono immagini molto forti dell’intervento della polizia nei confronti dei ragazzi di sinistra e pacifisti che manifestavano davanti all’International Amphitheatre di Chicago. Hippies, studenti democratici, pacifisti si erano radunati per protestare contro la Convenzione che si svolgeva nella città. In quei giorni a Chicago ci furono 668 arrestati, 425 feriti e la polizia scatenò davvero l’inferno contro migliaia di giovani che manifestavano pacificamente.
Qualcuno definì la brutalità della repressione come un «police riot». Il sindaco democratico di Chicago, il potentissimo e discusso Richard J. Daley, aveva deciso di usare la mano forte per reprimere la protesta. E quando dal palco della convenzione il senatore Abraham Ribicoff, sostenitore di George McGovern, criticò duramente l’intervento della polizia, Daley urlò, dalla platea che ribolliva: «Fuck you. You, Jew, son of a bitch». Gli incidenti furono per la prima volta trasmessi in diretta televisiva e il Paese assistette poi al delirio di una convenzione divisa e confusa.
Fu così che Richard Nixon vinse le elezioni. Infatti, nel 1968, in America, il partito democratico riuscì nel capolavoro di scegliere, come candidato, l’uomo più antico della lizza, quell’Hubert Humphrey che era stato il vicepresidente di Johnson e aveva sostenuto, senza fare una piega, l’escalation della guerra in Vietnam.
Che storia, quella dei primi mesi di quell’anno fatidico. Robert Kennedy annuncia la sua discesa in campo il 16 marzo del 1968, esattamente dieci anni prima del rapimento di Aldo Moro. Quindici giorni dopo, a sorpresa, Lyndon Johnson comunica dalla Casa Bianca che non si ricandiderà. Ad aprile verrà ucciso Martin Luther King, leader del movimento contro il razzismo. Seguiranno all’assassinio scontri violenti in tutto il Paese.
La stagione delle primarie è segnata dalla competizione tra due candidati, McCarthy e Kennedy, sostenitori della necessità di porre fine presto alla guerra in Vietnam. La campagna di Kennedy, che i giornali definirono «una grandissima, gioiosa avventura» si svolse tra il consenso popolare crescente e la forte ostilità dei capi del partito. In quei tempi le vere elezioni primarie erano poche, tredici, e il resto dei delegati veniva scelto attraverso procedure che erano fortemente influenzate dai boss democratici dei singoli Stati. Ma Kennedy, dopo la vittoria dei primi di giugno in California e in South Dakota, qui grazie al voto degli indiani, dimostrò di essere in grado di conquistare la nomination. I colpi di pistola sparati a Kennedy misero fine a quel sogno, che avrebbe davvero cambiato il destino dell’America e del mondo.
Consapevoli di questo due milioni di persone in tutta l’America uscirono di casa, cappello sul cuore, per salutare dai binari il treno che trasportava il feretro del senatore Robert Kennedy in viaggio dalla California a Washington. Una delle pagine più belle di sintonia tra un leader politico e il suo Paese che si siano mai conosciute. La Convenzione democratica, dopo solo due mesi, si svolse invece in un clima drammatico, violento, caotico, con un partito profondamente spaccato, con i delegati di Kennedy che si divisero nell’espressione del proprio consenso, con l’effetto psicologico e politico, sui presenti, degli scontri tra la polizia mandata dal sindaco democratico e giovani elettori, sicuri o potenziali, dello stesso partito.
In quell’anno cruciale, un anno di profondi rivolgimenti del mondo occidentale, i partiti finiscono paradossalmente con lo scegliere due uomini, Nixon e Humphrey, che, come scrisse Arthur Schlesinger, erano: «Uomini del passato, uomini il cui modo di pensare si era formato nella generazione passata e che tendevano a vedere gli anni Settanta secondo l’immagine degli anni Quaranta».
Oggi l’America è davvero divisa, ancor più di allora. Forse come non mai, perché le linee di separazione hanno ora a che fare con valori fondamentali della democrazia. La campagna elettorale si svolgerà attorno a grandi temi: l’immigrazione, l’aborto, l’ambiente, il ruolo degli Usa nel mondo. Ma tutto è radicalizzato, tutto estremo, persino con la minaccia estrema di non riconoscere, da parte di Trump, l’esito del voto.
I democratici, con il reset della candidatura di Harris, hanno cambiato il tavolo di gioco. Non si parlerà più della senilità del presidente uscente e Trump, ora, apparirà lui il figlio di un’altra stagione, a fronte di una donna di vent’anni più giovane.
Siamo stati a un passo dalla guerra civile in America, con l’attentato a Trump. Colpisce una frase che proprio Robert Kennedy pronunciò, la mattina in cui poi sarebbe stato ucciso: «Se qualcuno volesse sparare al presidente degli Stati Uniti, non sarebbe un’impresa molto difficile. Non deve fare altro che nascondersi in un edificio alto con una carabina munita di mirino telescopico e nessuno sarà in grado di difenderti». «America, America dove vai?», quel titolo del film sulla Convenzione di Chicago sembra oggi terribilmente attuale. In un Paese però più fragile e più diviso dall’odio.